Il fantastico capitano. L’ultima pellicola di Matt Ross è una piccola fiaba morale sulla famiglia

Qualche anno fa Sean Penn aveva raccontato con il suo film “Into the wild” la storia vera di un ragazzo che, dopo il diploma, decide di abbandonare la vita sociale, per lui troppo superficiale e consumista, e di ritirarsi in mezzo alla natura, in compagnia solo degli animali, dei pochi umani che trova nel suo cammino e di buoni libri da leggere. Rifacendosi ad una scelta reale, Sean Penn aveva messo in evidenza come, ancora oggi, nella cultura americana sono forti, anche se minori, gli influssi di una certa corrente filosofico-letteraria: quella che si rifà a Emerson, Thoreau e Whitman, la cosiddetta corrente del trascendentalismo, che predica un rapporto diretto con la natura, spirituale, alla ricerca del vero senso delle cose, contro ogni sovrastruttura inventata dalla modernità. Uno spiritualismo, che non ha nulla a che fare con le religioni tradizionali, ma che critica il razionalismo della modernità. Era quello che cercava di fare il protagonista della pellicola di Penn ed è l’utopia a cui si ispira Ben, capofamiglia che ha scelto di crescere, insieme alla sua moglie, i loro sei figli a contatto con la natura, al di fuori di ogni rete di interazione sociale e cittadina. Ben è il protagonista del film “Captain Fantastic”, diretto dall’americano Matt Ross e interpretato da un bravissimo Viggo Mortensen.

Ben e la moglie hanno scelto di crescere i loro sei figli lontano dalla città e dalla società, nel cuore di una foresta del Nord America. Sotto la guida costante del padre, i ragazzi, tra i cinque e i diciassette anni, passano le giornate allenandosi fisicamente e intellettualmente: cacciano per procurarsi il cibo, studiano le scienze e le lingue straniere, si confrontano in democratici dibattiti sui capolavori della letteratura e sulle conquiste della Storia. Suonano, cantano, festeggiano il compleanno di Noam Chomsky e rifiutano il Natale e la società dei consumi. La morte della madre, da tempo malata, li costringe a intraprendere un viaggio nel mondo sconosciuto della cosiddetta normalità: viaggio che farà emergere dissidi e sofferenze e obbligherà Ben e mettere in discussione la sua idea educativa.

A prima vista, l’opera seconda di Ross sembra inserirsi nella tradizione del cinema indie che tratta della fatica della socializzazione per chi è o si sente diverso, specie in quell’età giovanile in cui socializzare è un diktat, un film che segue la tradizione delle pellicole sulle famiglie imperfetta: tutto questo c’è, compreso il viaggio in pulmino (in questo caso una vera e propria casa-bus). Ma ciò che rende “Captain Fantastic” un film meno scontato del previsto, è invece il suo mettere al centro il tema dell’educazione, problematizzandolo. Facendo scontrare due modelli educativi: quello utopistico di Ben e quello ormai “tradizionale” delle moderne società consumistiche, mostrandoci i limiti e le virtù di entrambi, senza vedere tutto o bianco o nero, ma articolando la problematica e facendoci vedere quanto difficile sia essere genitori e saper educare i propri figli. E affermando, anche, come, alla fine, ciò che conta è l’amore, il dialogo, l’ascolto, il rispetto reciproco. Un film che è un po’ una favola, una piccola fiaba morale, con al centro una famiglia, unica, speciale e molto unita, che ci ricorda quanto importante sia la forza del nucleo familiare e quanto cruciale esso sia per l’educazione delle generazioni.