Il Novecento di Sironi

Una sintesi del suo percorso artistico nella mostra al Vittoriano di Roma

Pittore, scultore, architetto, mosaicista, scenografo, illustratore, grafico pubblicitario, allestitore di mostre… tutto questo insieme di professioni che attengono alla sfera delle Arti, maggiori e minori, si possono riassumere citando il nome di Mario Sironi. Anche il Novecento, secolo culturalmente fervido e socialmente travagliato, trova una sintesi nella sua personalità artistica ed umana. Le sue opere hanno attraversato tutte le correnti dell’arte del XX secolo: dal simbolismo al divisionismo, dalla ‘eccitante’ stagione futurista alla straniante dimensione metafisica, fino ad anticipare, per certi aspetti, quella che sarà poi la transavanguardia. La mostra allestita presso il Complesso del Vittoriano a Roma, “Mario Sironi 1885-1961”, celebra questo originale maestro del Novecento italiano, secondo un percorso espositivo che, partendo dalla fase giovanile, termina agli ultimi momenti di attività. Sono proprio le prime opere, come la “Marina” del 1899 (collezione privata) o la “Chiesa di Ghisallo” del 1903 (collezione privata), a stupire per l’abilità con cui un giovanissimo ragazzo, appena quattordicenne, sia stato capace di dipingere con una matura padronanza della tecnica.

Con il Ventennio le emozioni cambiano colore e lo stupore iniziale cede il passo al silenzio struggente, quel silenzio monotono e sordo dei suoi famosissimi “Paesaggi Urbani”. Sono “Periferie” dominate da un’atmosfera quasi lunare, luoghi svuotati dalle persone e dalla natura, ambientazioni dove gli edifici compatti ed architettonicamente ‘perfetti’ sono attraversati da strade lineari e geometriche. Talvolta il vuoto viene riempito inserendo un’immagine apparentemente familiare come un mezzo di locomozione, ed ecco “Il Camion giallo” del 1919 (Pinacoteca di Brera, Milano), oppure “Il tram” del 1920 (Galleria d’Arte Moderna “E. Restivo”, Palermo). La città emblema di questa ‘urbanizzazione’ industriale è Milano, che assurge a simbolo drammatico della vita moderna e che agli occhi dell’artista non appare più come la metropoli euforica della “Rissa in Galleria” di Boccioni, bensì come “la capitale di un dopoguerra senza pace” (Pontiggia, 2014).

In questi dipinti traspare chiaramente la cifra artistica di Sironi, che se da un lato aveva recuperato dalla lezione futurista l’attenzione per il realismo, dall’altro operava una sorta di “purificazione” cancellando la dimensione temporale dell’evento; così come da Balla aveva “mutuato l’attenzione al contrasto tra luci ed ombre”. Sironi sceglie una tavolozza cromatica incentrata su tonalità tenui che sembrano evocare brani di autentica poesia crepuscolare, al pari di un Gozzano “ergendosi nell’ombra come un piccolo sole… durava nella stanza l’eco d’una speranza data senza parole…”.

Continuando il percorso non si può che rimanere folgorati da quello che i curatori indicano come il “cuore pulsante dell’esposizione”, ovvero la sala dedicata alle opere monumentali di Sironi. Qui sono presenti imponenti dipinti per dimensione e struttura (cm 320 x 200), tutti di collezione privata, come “il Lavoratore, Lo Studente” del 1936 e “l’Impero”. Si tratta di figure ieratiche, prive di grazia che si accalcano in uno spazio segmentato dominato da simboli e lettere, mentre lo spettatore assurge a novello Gulliver nell’isola dei giganti. Un eloquente commento dell’arte di Mario Sironi lo troviamo nelle parole di uno scrittore famoso per il suo mondo fiabesco ovvero Gianni Rodari: “per me la sua pittura è una lezione di tragedia… non c’è pittore che valga i suoi quadri”.