Esperanto l’Europa

I Padri fondatori della Comunità Europea hanno voluto sognare e una parte del sogno è riuscita, ma forse la seconda parte, quella più importante, non riuscirà mai.

La prima parte è la moneta unica e l’unificazione dei mercati, la seconda parte è l’unificazione giuridica e dunque l’uniformazione di un sentire comune.

L’ attività normativa la compie sia la Commissione Europea che la Corte di Giustizia e il Tribunale di primo grado (funzione nomofilattica), ma usando concetti astratti mutuati dai singoli ordinamenti e non dal diritto comune europeo; basti pensare che ogni volta che viene stilata e promulgata una legge, essa viene tradotta in 23 lingue e interpretata dai giudici dei singoli Stati, creando difficoltà ermeneutiche non marginali.

L’uniformazione giuridica dovrebbe essere la conseguenza di valori comuni condivisi e radicati nelle popolazioni. Mentre noi vediamo che i singoli Stati continuano a legiferare in maniera originale senza aspettare una chiara indicazione europea. Si pensi ai matrimoni degli omosessuali in Spagna, al di là dell’aspetto puramente morale che la cosa assume per noi cattolici e non solo. Dovranno essere gli altri Stati ad adeguarsi alla Spagna? Come dovrebbero essere regolati i rapporti anche patrimoniali tra due coniugi uomini o donne spagnoli che si trasferissero in Italia, ad esempio per motivi di lavoro? Si può pensare che in una Unione Europea due persone siano sposate nel loro Paese, ma non in un altro della stessa comunità?

L’Esperanto è una lingua artificiale e l’Europa una unione artificiale. Non che non si possa fare: si può usare l’Esperanto per comunicare. Ma ne vale veramente la pena?

I popoli europei condividono sicuramente valori comuni, ma siamo sicuri che siano esattamente quelli rappresentati dai rispettivi parlamentari europei?

Si pensi, ad esempio, al fatto che la lingua inglese è quella che dovrebbe essere utilizzata per la stesura della leggi e per la comunicazione “ordinaria”; quando in inglese si usa un termine giuridico, di solito il suo significato è quello che assume nella tradizione del common law, mentre in buona parte dei Paesi europei vige il civil law.

La situazione non è facile, anche perché tutti abbiamo visto le risatine poco formali di Sarkozy e Merkel che si sono comportati come i primi della classe e forse, pur avendo ragione, non hanno trattato l’Italia con la dovuta serietà. Potevano dire che l’Italia non dà, al momento, garanzie sufficienti quanto al risanamento economico, ma se vuole può farcela, tuttavia il giudizio spetta a figure istituzionali europee a ciò deputate e non a singoli capi di governo.

È vero che l’Unione Europea è un fatto recente, rispetto ad altre realtà che si sono consolidate nel corso di secoli. Ma l’Europa ha anche una grande tradizione di diritto comune europeo, quello proveniente dal diritto romano e, non sembri secondario, da quel collante di valori che nei secoli è stato il cristianesimo.

Lo scrittore greco Plutarco diceva più o meno così: girando per il mondo potrai trovare città senza scuole, senza mura, senza Re, senza eserciti, ma una città senza templi e senza dèi non la troverai mai. Ciò significa che la base al vivere comune la dà la religione, da cui vengono leggi, usi e consuetudini, e dunque un sentire comune, una morale condivisa.

Se si vuole relegare la religione all’ambito ristretto delle relazioni solipsistiche dei singoli individui, allora la base comune della nuova Europa non si costruirà mai.

Nessuno, però, ci impedisce di sognare.