Credere per fede, non per i miracoli

Vito Impellizzeri in “Mi metto la mano sulla bocca”, a cura di Massimo Naro

“I Discepoli rimangono perché (Gesù, ndr) ha parole di vita eterna che danno un senso alla vita. Se avesse fatto solo miracoli non sarebbero rimasti”.

Questo rovesciamento delle prospettive di lettura eccessivamente “addormentate” sui miracoli – sui fatti, apparentemente – del Vangelo appartiene ad un saggio di Vito Impellizzeri sulla visione cristiana nell’opera di Santucci e Luzi contenuto in “Mi metto la mano sulla bocca”, a cura di Massimo Naro (Città Nuova, 311 pagine). Il volume si pone l’obiettivo di cogliere echi biblici, soprattutto quelli provenienti dai libri sapienziali, Giobbe e l’Ecclesiaste tra tutti, in alcuni autori del Novecento italiano.

Impellizzeri, dunque, pone una questione apparentemente scontata, per chi ha presenti le stesse ammonizioni di Gesù a credere per fede e non per i miracoli. Dunque le parole pesano più dei fatti, in quanto si pongono come realtà fattuale esse stesse, come un qualcosa che ha a che fare con la vita più di quanto l’uomo del tempo, anche dei nostri tempi, possa pensare. Eppure, se riflettessimo sulle traduzioni in greco e poi in latino ci accorgeremmo di quanto questo fosse già presente nelle comunità cristiane: il Lògos diviene in latino Verbum, tradotto poi come Verbo: l’energia creatrice ha a che fare con la Parola, seppure parola divina, che accoglie in sé l’intero processo della vita universale.

La medesima poesia, di cui si parla in questo libro realizzato con i contributi di Giuseppe Bellia (la letteratura sapienziale e i suoi rapporti con la poesia), Loretta Marcon (Giobbe e Leopardi), Carmelo Mezzasalma (Rebora, Turoldo, Barsotti), Anna Maria Tamburini (Cristina Campo, Margherita Guidacci, Agostino V. Reali), Anna Baldini (Primo Levi), Piero Stefani (Quinzio), Aldo Gerbino (Cattafi e la letteratura siciliana nel Novecento), Salvatore Ferlita (Guido Morselli), Marida Nicolaci (Alda Merini), ha una etimologia che parla chiaro: poiéin, da cui deriva la parola poesia, in greco vuol dire “fare”, “costruire”.

Più volte in questi saggi torna, e probabilmente gli autori non si sono accordati per questo, l’elemento non solo conoscitivo, ma soprattutto fattuale della poesia e della creazione letteraria. Bellia nota che la bellezza della poesia biblica non sta nella contemplazione come oblio dell’essere, anzi, riportando parole di Robert Alter, rileva come essa “smaschera la tentazione di fare dell’opera d’arte un idolo”. Il già citato Impellizzeri riporta una testimonianza di Mario Luzi nella quale il grande poeta scrive che nella ricerca di sé si diviene “parte del tutto”; e Simone Weil, citata dalla Tamburini, afferma la possibilità di “entrare nel paese puro, il paese respirabile, il paese reale” attraverso la sventura ma anche l’aspirazione alla bellezza.

Si ha l’impressione che questo libro sia qualcosa di più di una semplice raccolta di saggi, ma rappresenti una novità nella critica letteraria, sia sul versante della ricerca delle fonti lontane, sia nel capovolgimento della concezione stessa della poesia, non più e non solo scarto dalla norma, difficoltà a vivere, ma forma stessa, più profonda, dell’esistere, in grado di creare e di dare senso e orientamento ad esistenze che non ne avrebbero.

La ricongiunzione al disegno incomprensibile di Dio, che scandalizza – non senza ragione – Giobbe e che fa gridare alla apparente insensatezza dell’esistenza l’Ecclesiaste, è possibile anche grazie ad alcuni momenti -terribili e insieme privilegiati- dispensati dalla poesia e dall’arte.

Come afferma l’Alda Merini raccontata dalla Nicolaci, “il canto l’avevo dentro (ma era il canto della vita, e questo non l’hanno capito)”. Parole più appropriate, e non a caso scritte da una poetessa che ha pagato quel dono con abissali sofferenze, non potrebbero essere concepite.

La poesia presentata da questo libro è un “fiancheggiamento” della vita, uno sprofondamento dentro i suoi misteri, che se non si vedono, non è detto che non esistano. Se non altro, la scienza moderna ci ha insegnato che dobbiamo fare conti salati con il non visibile e il non immaginabile, che fanno parte dell’esistenza, nostra e del cosmo nel quale siamo chiamati ad abitare.