Una colata di cemento israeliano sulla Soluzione “Due popoli, due Stati”. Ma la pace è ancora possibile

Con l’approvazione di Israele di nuovi insediamenti in Cisgiordania e Gerusalemme Est e la legalizzazione retroattiva di 4mila alloggi su terre private palestinesi, la soluzione dei “Due Popoli, due Stati” sembra ormai fisicamente irraggiungibile. Con il processo di pace giunto a uno dei suoi livelli più bassi il conflitto israelo-palestinese fatica a trovare la giusta attenzione diplomatica stretto come è dalle guerre in Siria, Iraq, Libia e Yemen. Tuttavia è ancora vasto il fronte della comunità internazionale che cerca di rivitalizzare la soluzione “Due popoli, due Stati”, in primis la Santa Sede con Papa Francesco. Ma è una soluzione ancora possibile?

Una colata di cemento sulle residue speranze di negoziati di pace tra israeliani e palestinesi e sulla proposta auspicata da gran parte della Comunità internazionale e da Papa Francesco, “Due Popoli, due Stati” (Two State Solution) sui confini del 1967. Potrebbe essere questa la conseguenza ultima dell’approvazione da parte del Parlamento israeliano di una legge che legalizza retroattivamente insediamenti per circa 4mila alloggi su terre di proprietà privata nella Cisgiordania occupata. Una decisione, assunta il 6 febbraio, che segue di poco quella di costruire oltre 3.000 nuove abitazioni a Gerusalemme Est e in Cisgiordania. Contestualmente il premier, Benyamin Netanyahu, ha annunciato anche la pianificazione di una colonia completamente nuova. Fatto significativo poiché Israele negli ultimi 25 anni si era limitato ad ampliare con migliaia di nuovi alloggi le colonie già esistenti, ma mai aveva autorizzato un nuovo insediamento nei Territori palestinesi occupati 50 anni fa. Per i palestinesi “è evidente che Israele stia approfittando della nuova amministrazione Usa per prevenire l’esistenza di uno Stato palestinese”. Da qui la richiesta che Usa e comunità internazionale applichino delle misure prima che Israele completi la distruzione della continuità territoriale e demografica della Cisgiordania”. Un appello recepito in parte da Trump che ha chiesto a Netanyahu di cessare l’espansione degli insediamenti nei territori palestinesi occupati perché “non aiutano” la pace nella regione.

Verso uno Stato di apartheid? Ma per Vincent Fean, diplomatico britannico, già console generale a Gerusalemme dal 2010 al 2014, non ci sono solo gli insediamenti a complicare la situazione tra israeliani e palestinesi: “Gaza, dove vivono circa 2 milioni di persone in condizioni terribili e inaccettabili; la mancanza di lavoro e di opportunità in Cisgiordania; l’allontanamento dei giovani palestinesi dalla politica; la mancanza di sicurezza di Israele”. E l’elenco non finisce certo qui: “Il conflitto israelo-palestinese oggi fatica a trovare attenzione rispetto ad altre guerre più sanguinose (Siria, Iraq, Libia), lo stesso mondo arabo è diviso e non più troppo solidale verso i palestinesi”. Alla luce di tutto ciò la domanda torna attuale: la soluzione “Due Popoli, due Stati” è ancora praticabile?

“Quanto sta avvenendo sul terreno – afferma al Sir Fean – va nella direzione sbagliata, quella della creazione di uno Stato unico che non è la cosa migliore per entrambi i popoli.

Una svolta di questo tipo porterebbe a uno stato di perenne occupazione per i palestinesi, con un milione di coloni sparsi in Cisgiordania e Gerusalemme Est e con Gaza chiusa a chiave. Uno Stato di apartheid con Israele destinato a vivere con la spada e i palestinesi disperati e radicalizzati.

Israele sarebbe così il Sud Africa del 21° secolo”.

Una soluzione ancora possibile. La soluzione “Due popoli, due Stati”, ancora oggi, secondo Fean, “resta la più equa. Purtroppo la situazione sta peggiorando”. Per questo motivo diventa “determinante” la risoluzione 2334, adottata il 23 dicembre dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che condanna “la costruzione e l’espansione delle colonie”, sottolinea che “la cessazione di ogni attività di colonizzazione da parte di Israele è indispensabile per salvaguardare la soluzione dei due Stati” e chiede “passi positivi per invertire le tendenze che stanno impedendo la soluzione dei due Stati”. In attesa di “passi positivi” la comunità internazionale deve continuare a sostenere questa soluzione “riaffermando gli eguali diritti dei due popoli e quello all’autodeterminazione dei palestinesi; riconoscere, a livello di nazioni, lo Stato di Palestina sui confini del 1967, sebbene sia sotto occupazione; agire sulla base delle leggi umanitarie internazionali senza timore o favori. Oggi Israele punisce ogni trasgressione dei palestinesi restando a sua volta impunito”. Tra le misure che l’Ue potrebbe mettere in campo c’è anche quella di “invitare aziende europee a non intrattenere rapporti commerciali con le colonie e quindi non acquistare merci e beni che vi si producono. Essendo le colonie illegali sono illegali anche i loro prodotti”. Stessa cosa anche per tutti “gli enti, associazioni, banche e fondazioni che sostengono gli insediamenti”.

Un diverso e meno fruttuoso rapporto costi/benefici dell’occupazione potrebbe, afferma il diplomatico, “far cambiare la visione israeliana del conflitto. Può richiedere del tempo ma deve accadere”.

D’altra parte, l’uso della violenza da parte dei palestinesi “è sbagliato e inutile. L’uccisione l’8 gennaio scorso, con un camion, di 4 soldati israeliani a Gerusalemme non aiuta la causa palestinese ma aumenta solo paura, diffidenza e odio”. Con un rischio in più dietro l’angolo:

“Questo non è un conflitto religioso, ma potrebbe diventarlo. La radicalizzazione rode il mosaico di fedi di questa Terra Santa.

Gerusalemme è sacra a tutte e tre le grandi religioni monoteistiche. Qualsiasi soluzione duratura dovrà garantire assoluta libertà di culto dei credenti nei loro luoghi sacri. Il peggioramento della situazione non può essere accettato come inevitabile. Urge lavorare per migliorare la vita di chi vive nell’ingiustizia e impegnarsi per porvi fine”.