CINEMA / Un giudice severo dal cuore tenero

Dalla Francia arriva il film “La corte” che racconta i “colori” dell’animo umano

Michel Racine è un maturo giudice togato della corte d’Assise di Saint-Omer, nella regione nordoccidentale del passo di Calais, soprannominato il magistrato “a due cifre”, perché è difficile che le vittime dei suoi verdetti scontino meno di dieci anni di reclusione. È un uomo solitario, metodico, antipatico: un misantropo che conduce un’esistenza grigia, arrabbiato con il mondo e, forse, con se stesso. Ha una moglie da cui sta per divorziare, vive, perciò, in un albergo e tutta la sua vita ruota attorno all’aula del Tribunale dove può, finalmente, esercitare tutto il suo inflessibile potere. Nonostante una brutta influenza di stagione, Racine è chiamato a presiedere l’aula in cui si svolge il processo a un giovane disoccupato, accusato di aver ucciso la figlia di sei mesi. Ma a sconvolgere Racine non è l’omicidio di Melissa, di per sé atroce e raccapricciante, bensì la presenza tra i giurati popolari di Ditte Lorensen-Coteret, un’anestesista di origini danesi che aveva conosciuto anni prima, quando era stato ricoverato in ospedale per un incidente, e della quale si era perdutamente innamorato. Quasi in segreto. Nei giorni in cui si svolge il processo Racine abbandonerà a poco a poco la sua maschera cupa e intransigente, per mostrare il suo vero carattere: quello di un uomo timido, insicuro, capace di grandi slanci e passioni. Sarà l’amore a illuminarlo ed elevarlo.
“La corte”, diretto da Christian Vincent, è un film d’attori o, sarebbe meglio dire, d’attore: si regge tutto, infatti, sulle spalle di Fabrice Luchini, suo interprete principale e attore molto conosciuto in Francia. È lui a interpretare il presidente Racine (il film in originale si chiama “L’Hermine”, “L’ermellino”, a indicare la toga del presidente di giuria) e a metterne in scena azioni e comportamenti. È lui a dargli voce ma soprattutto a dargli sguardi: perché il film di Vincent si gioca tutto sul non detto, sulle occhiate lanciate furtivamente, sulle micro-espressioni facciali che Luchini rende a meraviglia. Rese ancora più visibili dalla regia che si concentra sui primi piani e orchestra una storia d’amore “da camera”: nel senso che il film ha una struttura volutamente teatrale, che si svolge praticamente all’interno dell’aula del tribunale, nei pochi giorni di dibattito processuale. Così da far concentrare tutta l’attenzione dello spettatore sui movimenti invisibili dell’animo del protagonista.
Una pellicola romantica che non assomiglia a nessuna altra pellicola precedente e non si può far risalire ad alcun genere. E questo è certamente un merito che va dato al regista. Perché è stato capace di raccontarci una ennesima storia d’amore (tema fulcro di tutto il cinema da sempre) ma con una modalità insolita, con un ritmo lento ma non noioso e con una delicatezza nell’affrontare i sentimenti più comuni ma più profondi dell’animo umano. Inoltre, la pellicola sviluppa un discorso nient’affatto banale sul rapporto tra giustizia e verità, fra legge e diritto, fra coscienza e legalità, con una finezza di indagine che va altrettanto apprezzata. Un film, dunque, che sa raccontare i colori dell’animo umano e delle sue relazioni e, al tempo stesso, è una riflessione sul ruolo della legge nella nostra società.

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