Olimpiadi: a che gioco giochiamo?

Dopo gli Europei di Calcio, la grande macchina della distrazione di massa si avvantaggia dei Giochi Olimpici. Londra 2012 ha una copertura mediatica che le ondate di rivolta che agitano il mondo reale nemmeno si sognano. Così vanno le cose.

Non è che lo sport non ci piaccia. Ma tutta la retorica sui valori sportivi, sul gioco di squadra, sul premio che ripaga del sacrificio suona fastidiosamente falsa. Milioni di cittadini, ogni giorno, fanno enormi sacrifici. Di solito in cambio ottengono umiliazioni e delusioni. Altro che medaglie e montagne di denaro!

Si dice che le olimpiadi trasmettano messaggi positivi. È possibile. Ma ormai lo sport è una industria globale. Come tale i suoi veri scopi sembrano essere il condizionamento sociale, l’induzione al consumo e la ricerca di un profitto senza sosta. I grandi eventi sportivi preconfezionati fanno parte della macchina, e anche certe operazioni dello sport locale non sfuggono a questa logica.

Va bene giocare e guardare le gare, ma occorre saper distinguere. L’industria mondiale dello sport ha i suoi interessi, i suoi scopi, la sua urgenza di vendere eroi.

Ormai anche la sana competizione, la concentrazione e l’abnegazione lasciano un retrogusto che sa di inganno.

Si direbbe che lo sport serva per consolidare la fede nella concorrenza, nella competitività, nel libero mercato. Non è vero che l’importante è partecipare, perché alla fine dei giochi ci si ricorda soltanto di chi vince.

E per sentirsi un po’ vincenti, tanti spettatori spendono volentieri fin troppi soldi per “consumare” i miti e i luoghi comuni che il professionismo sportivo diffonde. Si può non riconoscerlo, ma lo sport industrializzato ha la forma della società gerarchica in cui, più o meno consapevolmente, abitiamo. Certo, non tutto è da rifiutare. Occorre però riflettere su questo strano bisogno indotto che ci fa dedicare tanta attenzione ai giochi dei professionisti.

È solo uno svago, si dirà. Ma non potremmo partecipare, divertirci, sfogarci come “dilettanti”?

Il dilettante è chi fa qualcosa per piacere; è l’amatore: chi fa le cose con amore. Un atteggiamento al quale la società del capitalismo avanzato dà una connotazione dispregiativa. I dilettanti hanno senso solo se sono il trampolino verso il professionismo. Chi fa lo sforzo di fare qualcosa solo per il gusto di farlo, senza un tornaconto, è ritenuto sciocco o folle: non sono previste azioni senza profitto. Con buona pace dell’Homo ludens.

Eppure rimettersi sulla prospettiva di un gioco non competitivo sarebbe qualcosa di salutare. Più che sulle Olimpiadi, sarebbe interessante volgere lo sguardo verso giochi accessibili a tutti, costruiti sull’equità. Senza regole elitarie che stabiliscono chi sia titolato a partecipare. Giochi il cui svolgimento conti più del punteggio finale.

Tutti, ormai, si dicono convinti che in ogni campo ci vogliano la concorrenza e la competitività. Le si invoca per l’economia, per la politica, per la scuola. Ovviamente anche per lo sport. Possono essere atteggiamenti utili, ma sarebbe prudente non farne un punto determinante. Una competitività senza freni finirebbe per dare vita ad una società disumana, nevrotica, bloccata.

Per fortuna non occorre essere competitivi per formare le proprie abilità, comprese quelle atletiche. La concorrenza non è strettamente necessaria. Forse dovremmo imparare dai bambini: loro sì che hanno un approccio fantasioso e creativo al gioco! Il lavoro di squadra gli viene spontaneo. Non hanno regole fisse e obiettivi predeterminati. Il loro è un universo in continua evoluzione. Eppure funziona. E pazienza se ha poco a che vedere con le competizioni sportive, le gare di abilità, e qualsiasi altra forma di gioco mercificato.

La prospettiva di un gioco senza rivalità suggerisce, semmai, qualche valore alternativo a quelli dominanti nell’attuale società. E ci stimola ad immaginare una impostazione cooperativa più che competitiva, un modo meno cruento di risolvere i conflitti, una società più conviviale. In fondo il problema di oggi non è tanto di vincere una partita o una medaglia, quanto incominciare a giocare in un altro campo, con un altro spirito, forse, addirittura… un nuovo sport.