99. “Caritas in Veritate”. Dare per avere o dare per dovere?

Papa Benedetto XVI nella “Caritas in Veritate”: il mercato e la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco. Quale rapporto corretto tra la logica del “dare per avere” e quella del “dare per dovere”?

Stato e mercato, se alleati nel continuare il monopolio dei rispettivi ambiti, giungono, secondo il pensiero di Papa Benedetto XVI, a mettere in discussione «la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini». Si tratta di una riflessione apparentemente ovvia perché è del tutto evidente che l’idea stessa di monopolio, se esasperata, chiama in causa una limitazione della libertà umana.

La “Caritas in Veritate” indica nell’agire gratuito la strada maestra per rompere la perversa alleanza tra la logica del “dare per avere” e quella del “dare per dovere”.

Si tratta di favorire un’apertura a quote di gratuità e comunione da parte delle attività economiche, soprattutto quelle con una ricaduta di livello mondiale. In tal modo, non solo la partecipazione e l’adesione dei cittadini alle relazioni reciproche sarà, oltre che stimolata, tutelata, ma si potrà intravedere una speranza per la vittoria sul sottosviluppo, una battaglia che potrà essere combattuta con ancora più deciso vigore.

Ecco le parole del Papa: «Il binomio esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali, che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone aperte al dono reciproco». Questa prospettiva intende sottolineare che la valenza sociale delle attività produttive, è il criterio oggi ritenuto più credibile quando ci si chiede quale futuro aspetta il mercato. È l’attuale idea di impresa quindi che risulta ormai anacronistica. L’impresa non può più rispondere quasi esclusivamente a chi in essa investe, pena la sua reale sopravvivenza in un mondo realmente globalizzato. È vero che «delocalizzazione dell’attività produttiva può attenuare nell’imprenditore il senso di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori, i consumatori, l’ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una straordinaria mobilità» È anche vero che «si sta dilatando la consapevolezza circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell’impresa. […] è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento».

Occorre, con determinazione, valorizzare imprese e manager che non rispondano solo e semplicemente agli azionisti di riferimento, ma sappiano creare solidi legami con il territorio dove operano. I danni di impostazioni diverse sono sotto gli occhi di tutti, Paolo VI lo ricordava bene quando «invitava a valutare seriamente il danno che il trasferimento all’estero di capitali a esclusivo vantaggio personale può produrre alla propria Nazione».

Il messaggio che è dietro questa affermazione, chiama in causa il significato morale dell’investire, concetto espresso da Giovanni Paolo II: investire non è un fatto solo tecnico, ma anche e soprattutto umano e etico. È evidente che delocalizzare «possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile».

In poche parole un’importante formula contro il sottosviluppo dei paesi poveri.