Rieti: voci dal sepolcro?

La nostra città e il nostro Paese sono alla ricerca di una possibile resurrezione, di una via d’uscita da quello che sembra un inarrestabile declino.

C’è crisi, è vero, c’è crisi. Le difficoltà si incontrano ormai ad ogni angolo. Precarietà e disoccupazione sono all’ordine del giorno. Con l’aumentare del costo della vita diventiamo tutti più poveri. Le possibilità di realizzarsi rispetto al passato diminuiscono e non si sa più in che modo cercare sollievo.

Il Calvario contemporaneo, fatto di spread impazziti, liberalizzazioni e nuove gabelle, non offre neppure un Cireneo. Il lavoro è un Golgota in riforma permanente. Nel salirlo sono in tanti a prevedere di finire in croce. Più difficile sarà risorgere.

Inutile invocare alla politica: ci ha abbandonato. Rischioso rimettere nelle sue mani il nostro spirito. C’è poco da fidarsi: presa com’è dai propri dividendi non saprebbe che farsene. Non bisogna guardare lontano per capirlo, basta la sciatteria che abbiamo di fronte.

Con le amministrative alle porte, liste e partiti paiono del tutto disinteressati ai problemi. Pretendono piuttosto di fare il nuovo con alcuni cambi di casacca e qualche inedita “discesa in campo”. Movimenteranno pure il panorama, ma appassionarsi a queste cose è inutile e un po’ triste.

I programmi elettorali sono anche più sconfortanti: si somigliano un po’ tutti. Costruiti su ricette riproposte fino alla nausea, rappresentano, in fondo, una sorta di trionfo del pensiero debole. Evidentemente non c’è motivo di sforzarsi di più: fermarsi a luoghi comuni e questioni di quart’ordine conviene. Forse perché l’elettorato, se non ha di che ragionare, si rifugia più facilmente nel consolante clientelismo di sempre.

Poveri elettori, come biasimarli: in fondo votare su questi presupposti può risultare gratificante. Credere che basti promuovere il turismo e dare una bella ripulita alle strade per uscire dalla crisi è una piacevole illusione. Apre alla possibilità che l’orrore in cui viviamo non sia universale, che il sistema in fondo vada bene, che le colpe si riducano tutte al malgoverno. Il popolo non c’entra, pure se dà il mandato.

Ma davvero basterà un migliore ciclo dei rifiuti per tornare ad essere felici? Sarà un nuovo arredo urbano a restituirci la serenità? Viene da dubitare. Di questo passo, in città, oltre ai sederi sulle poltrone che contano cambierà ben poco.

I partiti non sono tutti uguali, ma nessuna forza sembra disposta ad ammettere che il modello di società che abitiamo è semplicemente esausto. Anzi, si dicono tutti convinti di riuscire a cavarne ancora qualcosa di buono.

Non sarebbe invece il caso di prendere il disastro sul serio e ammettere che per risorgere occorre cambiare sistema? È vero che non c’è ancora una ricetta, ma qualcosa si riesce a intravedere. Potremmo partire da una povera intuizione: meglio dare la precedenza alle persone che all’economia.

Non è un invito alla miseria, disfattista e rassegnato. Oggi si può scegliere un gioioso affrancamento dai consumi senza troppo penare. Dopo tutto ci sono tante cose buone fuori dal mercato. L’autoproduzione e gli scambi solidali ad esempio. Non daranno tutte le risposte, ma possono aiutare molto più di quel che si crede. E poi, ammettiamolo: una certa rinuncia al consumismo può essere addirittura inebriante. Non comprare nulla o quasi non fa sentire affatto peggio, tanto meno poveri. Anche perché spesso ci riempiamo la vita di robaccia che non vale nulla. Infatti se si rompe (e si rompe sempre) conviene buttarla.

Rifiutare la competitività può essere un altro passo. Dio ci perdoni se dà scandalo all’amor proprio del mercato globale. È pure un dispetto ai danni della dignità nazionale, lo sappiamo. Ma quali vantaggi sono derivati da certe scelte recenti? Saremo pure diventati più efficienti, ma non sembra ne sia valsa la pena. Provare a risolvere le sfide su presupposti di solidarietà è una scommessa intentata da tempo. Chissà che non funzioni.

Saranno l’amicizia, il confronto e il mutuo soccorso a far rotolare la pietra del sepolcro? Non lo sappiamo, ma di certo i mercati, la moneta e la civiltà dei consumi non l’hanno spostata di un millimetro.