Papa Francesco e l’altezza dell’umiltà

Papa Francesco, la gente e il rosario al santuario della Vergine Aparecida.

Stando a racconti trasmessi da una generazione all’altra, la Vergine Aparecida (Apparsa), sotto il nome di Immacolata Concezione, divenne la patrona della città di San Paolo in seguito ad un episodio risalente al XVIII secolo, quando alcuni pescatori, gettando le reti nel fiume Paraiba, portarono in superfice una statua decapitata della Vergine Nera. Dopo avere gettato le reti la seconda volta ne recuperarono la testa.

La statua rimase per un po’ di tempo nella casa di uno di quei pescatori e qui la gente del villaggio si riuniva per recitare insieme la preghiera del rosario.

Papa Francesco prima di partire per il Brasile ha pregato a Santa Maria Maggiore ed ora eccolo in preghiera nel più grande santuario del mondo.

Il rosario, preghiera degli umili, preghiera ritmata nel silenzio o nel rumore da mani di uomini e di donne che accarezzano granelli di legno oppure di vetro.

Una devozione diffusa da san Domenico de Guzman (1170-1221), uomo di studio e fondatore dei Domenicani, come risposta all’eresia che nel suo tempo imperversava con cattiveria e faziosità.

Una preghiera che ha accompagnato e accompagna, come un canto lievissimo, la sofferenza, la preoccupazione, la fatica, la morte di tante persone.

Una preghiera spesso posta ai bordi di molti percorsi spirituali perché ritenuta ripetitiva, monotona, superata, vecchia. Forse da rottamare.

In realtà il rosario è un modo, nella sua semplicità e nella sua essenzialità, per meditare sui misteri della fede in compagnia di una donna, Maria.

Su questi sentieri dell’anima, dove è difficile se non ingiusto esprimere valutazioni, nasce tuttavia qualche domanda guardando a figure di persone quotidiane e di uomini politici o intellettuali che custodivano e sgranavano con profonda convinzione la coroncina del rosario.

Perché lo facevano, perché lo fanno? Più volte questa domanda è stata posta ai giovani in incontri sul tema della preghiera nel tempo.

Perché un uomo della statura culturale e istituzionale di Vittorio Bachelet ritmava i suoi passi per alcuni tratti delle strade di Roma con questi granelli tenuti insieme dal filo leggero dell’Ave Maria?

Perché – racconta monsignor Enrico Assi in “Cattolici e Resistenza” – quel giovane partigiano brianzolo condotto alla fucilazione lasciò che gli togliessero tutto ma non volle che gli portassero via la corona del rosario?

Perché il beato John Henry Newman, sostenitore del primato della coscienza, in un breve sermone tenuto nel 1879 ai ragazzi disse: “Voi sapete che Dio sceglie le cose piccole di questo mondo per umiliare le grandi”?

E perché Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi, fa dire a Lucia, che spaventata nel castello dell’Innominato riprende la trama delle avvemarie, “Ma il Signore lo sa che io ci sono”?

Le domande rimangono in sospeso, non intendono scuotere coscienze e forzare risposte.

L’invito che viene dalla preghiera del rosario, dall’inanellarsi dell’Ave Maria con i misteri della fede e la fatica di vivere, è quello di ritrovare il significato autentico di umiltà.

Non è una fatica interiore di poco conto.

Forse occorre riscoprire, in un cultura troppo spesso superba e arrogante, che vi è tanta altezza nell’umiltà e vi è tanta umiltà nell’altezza.

Solo così la preghiera del rosario potrà essere compresa nella sua verità, nel suo essere espressione limpida della fiducia dei figli nella loro madre e viceversa.

Papa Francesco questo lo ricorda al termine di ogni intervento.

Alla scuola dell’umile ragazza ebrea venerata anche all’Aparecida lo ripete ai giovani di tutto il mondo.