IL web in fuga dalle tasse

Troppe pressioni, anche internazionali: il Parlamento fa, il Governo disfa

Il Parlamento fa, il Governo disfa. Ancora più efficiente di Penelope con la sua tela, nel giro di pochi giorni la web tax è stata prima approvata dal Senato, in una versione “light” nella Legge di stabilità, e quindi la sua applicazione è rimandata dal Governo, con il decreto Milleproroghe, al 1° luglio. Un tira e molla che vede le opposte fazioni affrontarsi tra posizioni ideologiche e questioni di diritto comunitario, con le multinazionali .com, convitato di pietra, sempre pronte a far sentire il proprio peso.

Una materia complessa dal punto di vista tecnico-normativo, ma che nasce da una contraddizione che deve essere affrontata in tempi rapidi: le grandi multinazionali (in gran parte a stelle e strisce) di Internet, pur generando profitti nel nostro Paese, lasciano all’Italia (e agli altri Paesi Ue) poche briciole in tasse. Un esempio tra i tanti quello di Google: la società di Mountain View, in Italia, controlla la Technology Infrastructure, che vanta un credito d’imposta di quasi 5,5 milioni, e Google Italy srl che invece ha versato imposte per 1,8 milioni; a fronte di queste tasse, gli analisti stimano che il giro d’affari legato al mercato pubblicitario italiano sia pari a 700 milioni di euro.

La proposta di legge, presentata dall’onorevole Francesco Boccia (Pd, presidente della V Commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione della Camera), sarebbe dovuta servire a porre fine a quella che pur essendo una prassi assolutamente legale, a molti appare inaccettabile. “I soggetti passivi che intendano acquistare servizi online, sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media e operatori terzi sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita Iva italiana”, questo il passaggio centrale del testo proposto da Boccia che avrebbe costretto i cosiddetti “Over the top” a lasciare anche loro il dovuto obolo di tasse, piuttosto che (come accade oggi) realizzare utili con società create ad-hoc in Paesi con tassazione più favorevole (come ad esempio il Lussemburgo e l’Irlanda) in barba al fisco nostrano.

Dopo molte polemiche il Senato approva, il 23 dicembre, la Legge di stabilità che include una versione alleggerita della proposta Boccia: l’obbligo di possesso di partita Iva italiana è circoscritto solamente a chi vende pubblicità online “e link sponsorizzati”. A fianco di Boccia si schiera Carlo De Benedetti, ma il peso politico dell’ingegnere non è sufficiente: alle numerose voci contrarie (Movimento 5 Stelle, Stefano Parisi, presidente di Confindustria digitale, e Riccardo Donadon, presidente di Italia Startup) si aggiunge quella del neo-segretario del Pd, Matteo Renzi, che ne invoca la sospensione. Il Governo decide così di fare un passo indietro con il Milleproroghe, un dietrofront anticipato dal presidente del Consiglio Enrico Letta già a poche ore dall’approvazione: “È evidente che quel tipo d’intervento fiscale che la Camera ha introdotto ha bisogno di un coordinamento con le norme europee essenziali”. Una perplessità, quella dell’Unione, motivata da possibili incompatibilità con i Trattati europei, alla quale si sarebbero aggiunte, secondo indiscrezioni, le pressioni dell’ambasciata Usa e della Camera di commercio statunitense. Ora c’è tempo fino al 1° luglio, solo allora si saprà se l’Italia o l’Europa avranno trovato una soluzione al problema o se avranno deciso di tenere ancora gli occhi chiusi.