Truffatori a servizio della Fbi

Tornano gli Anni Settanta con “American Hustle” di David O. Russel

Dopo il successo di critica e di pubblico de “Il lato positivo”, David O. Russel torna al cinema con un’altra commedia, tratta da una storia vera, “American Hustle”. In inglese “hustle” significa truffa, inganno, e la storia della pellicola è proprio quella di una truffa ordita da un poliziotto Fbi per incastrare politici corrotti, affidandosi a due truffatori di professione. Siamo negli anni Settanta, nell’America del dopo Watergate, nella New York della “febbre del sabato sera”, al momento della rinascita economica e della voglia di vivere che porterà poi allo yuppismo reganiano. Russel racconta tutto questo affidandosi a una cura maniacale dei dettagli: ricostruzione perfetta di ambienti, costumi, musiche, spingendo l’acceleratore su un loro uso sfarzoso. E può contare su attori strabilianti, che fanno a gara di bravura e già si parla per loro di nomination assicurata ai prossimi Oscar.

Abscam era il vero nome di un’operazione Fbi che negli anni ‘70 incastrò alcuni membri del Congresso con l’aiuto di una coppia di noti truffatori. Irving Rosenfeld che per anni aveva guadagnato promettendo a persone disperate cifre grosse in cambio di cifre piccole senza mai corrispondere nulla, fu incastrato assieme alla sua socia e compagna Sydney Prosser e costretto dall’agente Richie Di Maso ad aiutare la Fbi nell’organizzazione di una truffa ai danni di politici e mafiosi. Quello che nessuno aveva calcolato era però la devastante presenza della vera moglie di Irving, un ingestibile tornado di problemi. Su tutta la vicenda narrata aleggia l’ombra flebile di un conflitto tra i più comuni al cinema, ovvero il rapporto che la finzione instaura con la realtà: cosa implichi, cioè, per due individui l’essere uniti dal proporsi a oltranza per quello che non sono. Ma quello che interessa veramente al film di Russel è il dipanarsi e intrecciarsi dei rapporti tra i quattro protagonisti, come già in “The Fighter” e ne “Il lato positivo”.

Il giovane regista americano ama raccontare personaggi animati dalle migliori intenzioni di fronte agli ostacoli che le proprie debolezze e quelle delle persone che gli sono più vicine pongono per il raggiungimento di una vittoria reale, metafora di una più profonda e spirituale. Sia un incontro di boxe, una gara di ballo o come in questo caso una serie di arresti di proporzioni sempre più esagerate, il raggiungimento dello scopo finale nei film di Russell è dimostrazione di qualcosa di più grande e sembra essere sempre subordinato al confronto con la fragilità dei rapporti umani. Il regista mette la sua lente d’ingrandimento sull’anima dei suoi protagonisti, tutti caratterizzati da fragilità e insicurezze che ce li rendono profondamente umani, e fa sì che la sua macchina da presa li segua vorticosamente nelle loro vite esagerate e fuori dal comune. Nelle loro lotte quotidiane per sopravvivere e nei momenti in cui la vita sembrerebbe metterli a terra e loro devono rialzarsi. Il cinema di Russel è un perfetto esempio d’indagine antropologica, di mappa dei sentimenti e delle azioni morali e immorali degli individui, delle grandezze e delle piccolezze che ci caratterizzano e della necessità di stabilire, alla fine di tutto, con gli altri un rapporto sincero, non ingannatorio, come il protagonista, truffatore per eccellenza, capisce alla fine del film.