Fiat: nella terra di mezzo

Marchionne: per Fiat internazionalizzazione e Suv made in Italy.

C’è una strategia di grande respiro dietro le ultime mosse di Sergio Marchionne, l’amministratore delegato di una Fiat sempre più Chrysler, che ha archiviato definitivamente il progetto di Fabbrica Italia (miliardi di euro investiti per concentrare la produzione in Italia) per puntare su un colpaccio che trasformerebbe l’ex gruppo torinese in una multinazionale in grado di competere nel mondo intero.

La recentissima decisione di fermare per due anni lo stabilimento di Melfi, in Basilicata, per convertirlo alle nuove produzioni, è solo un tassello di qualcosa di molto più grande, che però si sta giocando – per la prima volta nella storia di Fiat – lontano da Torino. Precisamente a Detroit, capitale Usa dell’auto, dove Marchionne punta a fondere Fiat con la rediviva e pimpantissima Chrysler, acquistare la quota della stessa in mano al fondo pensioni Veba, quotare a Wall Street la nuova compagnia per raccogliere benzina sufficiente per farla competere con giapponesi, coreani, tedeschi e americani stessi.

Se la manovra gli riesce (e gli deve riuscire), Fiat-Chrysler avrà un futuro nettamente migliore del recente passato, in cui entrambe le Case automobilistiche un futuro non ce l’avevano più. Chrysler, reduce dalla proprietà Mercedes – che aveva perso negli Usa miliardi di dollari ma aveva lasciato un patrimonio tecnologico e manageriale ora preziosissimo – era a fine corsa quando Obama cercò in giro qualche compratore che la risollevasse. Fiat è da vent’anni almeno che non produce un euro di utile, mangiandosi quelli generati da Iveco e Cnh, le altre due gemme motoristiche del gruppo torinese.

Marchionne ha rigenerato Chrysler sfruttando soprattutto il marchio Jeep e trasformando una Casa automobilistica fallita in una gallina dalle uova d’oro. Solo che quest’oro è nuovamente divorato dalla controllante Fiat, in perenne crisi di redditività.

Tra l’anacronistica idea di mastodontici investimenti in suolo italiano per risollevarne le sorti, e il progetto di chiudere tutti i cinque stabilimenti tricolori mandando in soffitta i marchi Fiat, Alfa e Lancia, alla fine Marchionne ha scelto una via di mezzo: il cuore del gruppo si trasferirà oltreoceano, ma il patrimonio industriale italiano verrà salvato e in parte riutilizzato per le esigenze della holding.

Il manager italo-canadese si è trovato di fronte ad una domanda: che logica industriale ed economica ha produrre in Italia, in stabilimenti vecchi, con una manodopera sfiduciata e continuamente oscillante tra lavoro e cassa integrazione, automobili americane per il mercato americano?

A questa domanda ha dato una serie articolata di risposte. Pomigliano d’Arco è uno stabilimento già all’avanguardia; Melfi va svecchiato dai suoi vent’anni di storia; nel Mezzogiorno Fiat ha altri siti produttivi che lavorano a pieno regime su motori e mezzi commerciali; in Italia esiste un indotto automobilistico di prima qualità, che i tedeschi stanno fagocitando. Quindi l’Italia rimarrà nel contesto di una produzione che ormai si articola tra Polonia, Serbia, Turchia, Usa, Canada, Messico, Venezuela, Brasile e presto Russia, Cina e India.

Qui Marchionne ha fatto una virata ad U: è vero che sappiamo costruire splendide utilitarie, ma è anche vero che queste rendono poco o nulla se fatte qui. Nel medio periodo saranno spostate nell’Est europeo, mentre qui si punterà sulle vetture alto di gamma, quelle ideate e progettate oltreoceano. Quelle a maggior valore aggiunto, quelle che infine faranno saltare tutta la polemica innescata dal contratto aziendale siglato a Pomigliano e contrastato da Fiom-Cgil.

Ricordate? Si era discusso pure dei tempi della pausa-pipì. Logiche da vetturette in cui il feroce rispetto dei tempi di produzione è condizione importante per la redditività delle stesse. Logiche che cessano di avere un senso quando si vuole produrre Suv belli e costosi come quelli giapponesi o tedeschi.

Insomma, ci sono una notizia bella e una brutta nelle strategie che Marchionne seguirà nei prossimi 12 mesi, vitali per il futuro del Gruppo: l’Italia non sarà più centrale né per Fiat, né per il settore automobilistico. Ma non lo perderà, continuerà a produrre auto, furgoni, motori e componentistica che danno lavoro a centinaia di migliaia di persone, in condizioni migliori rispetto a prima e con investimenti che ridimensioneranno il Nord ma punteranno forte sul Mezzogiorno. Bello o brutto che sia, così è. Ma poteva essere peggio.