Don Salvatore Nardantonio: 40 anni da prete e da uomo

Per la vita delle persone, l’arrivo di un prete è un avvenimento importante in una parrocchia. Sia che credano o non credano. In genere si tratta di un sacerdote giovane, che viene mandato dal vescovo ad assumere un compito decisivo per la crescita spirituale ed anche civile di una comunità più o meno grande. Di un educatore, di un formatore a tutto campo! Quando nel 1974, quarant’anni fa, mons. Dino Trabalzini, spedì don Salvatore Nardantonio, nato nel Cicolano, un mezzo sangue sardo ed equicolo ed allevato nel seminario reatino da grandi insegnanti come i Riposati e i Santori, nella parrocchia di sant’Agostino, questa era grosso modo ristretta.

Don Salvatore era prete degli operai. Veniva dal luogo di lotte sindacali: proletari contro signori, ogni giorno. Un moderato, ma gli occhi e le idee rivolte in avanti. Gli operai, per intenderci, erano quelli della Snia. Badava a 1.500 lavoratori, che avviò sulle strade della fede alla luce degli insegnamenti di mons. Ferdinando Baldelli, il fondatore dell’Onarmo: “l’Opera Nazionale di Assistenza Religiosa e Morale degli Operai, organizzazione di assistenza religiosa, sociale, sanitaria ed economica dei lavoratori, che svolgeva la sua attività tra le classi più povere”. Non era un lavoro facile il suo, e non mancarono iniziative valide.

Il prete era uno spilungone, come adesso. Allora gli uomini erano capelloni. Anche i preti. Don Salvatore lo era mezzo-mezzo, ma con una bella linea di basettoni alle tempie. Così rosari, confessioni, comunioni, soprattutto eucarestia, conferenze, catechismo ed anche calcio, basket, concerti, conferenze, gite e pellegrinaggi, biblioteca, giornali. Tutto da infilare in un bottiglione e scecherare forte! Sfide con quegli irruenti e assatanati operai, che sul vecchio Fassini entravano a gamba tesa, foga classista e mezza atea, e non è che avessero molti riguardi nei confronti di don Salvatore, mandato spesso a terra a seguito di paurosi e terrificanti tackle. Ma non è che anche lui scherzasse, così robusto che era.

Mons. Trabalzini il suo parroco andò a sceglierlo là, alla SNIA, per dare il cambio nientemeno che a don Bruno Bandini, un pilastro della Chiesa reatina. Dal turbinoso Concilio Vaticano II era trascorso un decennio e poco più. Il prete che veniva dalla produzione del rayon – si diceva – era uno che con i giovani sapeva farci. Così cominciò da lì, dai giovani, con i quali ogni mattina s’incontrava al liceo Iucci, essendovi titolare di italiano e storia.

Mossa felice fu l’apertura al Cammino neocatecumenale della parrocchia, un carisma frutto del Concilio con il quale oggi quel tradizionale nucleo di cristiani laici che lo frequentò all’inizio, è totalmente missionario; catechizza ogni anno; ha imboccato la strada delle periferie; predica costantemente il Kerigma, perfino in piazza del Comune e non si vergogna! Insomma, va sotto il municipio di Petrangeli e nelle periferie dei senzatetto di ritorno, come nel ’60, nelle case di riposo e all’ospedale ad annunciare che Gesù Cristo è risorto!

Quando domenica scorsa s’è festeggiato il quadruplice decennio di quella prima volta, il resto di quelli che il Signore non aveva chiamato ancora in Cielo, era tutto lì, tornato da chissà dove, alla messa delle 1130, come nel ’74, a fargli festa con le chitarre della rivoluzione cattolica voluta da san Giovanni XXIII. Con quei primi, adesso incanutiti, c’erano i nuovi parrocchiani, i nuovi giovani che erano venuti con il territorio allargato e sempre con le chitarre.

Dopo così tanto tempo trascorso da parroco in un quartiere, la storia che ti si srotola sotto gli occhi, che fugge via come il passaggio di un jet o il volo di una rondine e non te ne accorgi, tra culle da benedire, confetti e lanci di riso e unioni da confermare, defunti che ti lasciano accompagnati da tanti requiem e dalle certezze di rivederci, di episodi da raccontarne ne hai un archivio conficcati bene nella memoria che regge e non cede un punto. Quanti ragazzi incerti e timidi sono divenuti uomini e padri sotto la sua guida, quanti professionisti affermati, operai onesti, madri e spose affettuose, perché educati con il Vangelo in mano e il sorriso sulle labbra, sempre pronto a benedire, incitare, comprendere, perdonare in nome di Uno che non vedi, ma che senti, perché c’è lui che lì lo testimonia, incrollabilmente sicuro.

Sempre con la parola perdono ad essere pronunciata per prima, anche quando l’errore commesso è stato grande. Eppure domenica scorsa una ruga su quella fronte spaziosa e lucida del parroco, i basettoni involatisi chissà dove, s’è notata. Ho pensato che fosse per le tante famiglie sofferenti e povere, per i tanti disoccupati e i licenziati, i cassaintegrati, per gli extracomunitari che bussano anche loro alla Caritas parrocchiale che non si riesce ad assistere tutti; per le numerose famiglie travolte dalle incomprensioni e dall’inimicizia.

E questa era la Chiesa fatta di persone, quella viva, che domenica c’era e che lui da buon muratore, con l’aiuto di Cristo, ha tirato su. La Casa di Dio, pure quella di pietra, è ora splendida perché curata con così tanto zelo dall’averla portata ad essere di nuovo bella, come ai tempi degli Eremitani, con l’aiuto dello Stato, del Comune, della Fondazione Varrone, del Commissariato per il terremoto, della Presidenza del Consiglio e dei tantissimi fedeli sempre generosi nelle offerte e nel conseguire gli obiettivi indicati, quando don Salvatore punta ad un ambizioso traguardo da raggiungere.

Infine le vocazioni. In questi quarant’anni in sant’Agostino ne sono nate, frutto raro e prezioso che non è mancato. Tante infine le energie donate dal parroco alla Diocesi con incarichi pesanti assolti e portati in solidarietà e sostegno dei vari vescovi, con fedeltà e generosità, vissuti bruciando come un lampo questi quaranta anni trascorsi a consolare, a sostenere, a gioire, predicando il dono della pace, lieti noi per averne goduto insieme a tanti.