Rieti, la Chiesa e la buona battaglia

La Chiesa e il problema di rispondere alla domanda di senso che proviene dalla città.

Il Congresso Eucaristico Diocesano è una buona occasione per riflettere sulla Chiesa locale e il suo rapporto con la città. È un tema grande, da avvicinare con cautela, senza voler affrettare giudizi definitivi. E tenendo presente che non è certo compito del giornale approfondire il profilo teologico e pastorale.

Ma, da “cronisti”, c’è almeno un tratto sul quale vale la pena di soffermarsi: assistiamo ad un progressivo distacco tra la Chiesa e la città. Non è un movimento scelto, meditato, da nessuna delle due sponde. Ma il fenomeno si presenta e va indagato. Pare infatti di trovarsi di fronte a due lembi di una ferita. Fa male, ma forse si può curare.

Da un lato la Chiesa soffre una progressiva marginalizzazione, una diminuzione della capacità di guidare le coscienze alla luce del Vangelo. Dall’altro la città si trova ad essere sempre meno capace di darsi riferimenti “alti”, di trovare una identità comune. E finisce per frammentarsi su interessi piccoli, incapace di compattarsi anche contro la prepotenza dei più forti.

La costruzione di una relazione più aperta e profonda tra Chiesa e città, dunque, sarebbe tutt’altro che inutile. È vero infatti che l’attuale deriva è compresa in un più ampio movimento di secolarizzazione, in un fenomeno che sta caratterizzando l’intera Europa. Ma non per questo è meno pressante la domanda di senso che proviene dalla città.

Di solito il nocciolo della questione si riduce alla percezione di una distanza tra i problemi delle persone e la proposta della Chiesa. Accade in generale, ma accade anche in modo circostanziato, soprattutto nelle parrocchie.

Si direbbe che la difficoltà della Chiesa di oggi, più che nella frequenza alle funzioni, consista soprattutto nella mancanza di testimonianze forti, credibili, radicate. Una assenza cui corrisponde una marginalizzazione, un restringimento del proprio ambito, che finisce per sminuire il carattere universale del suo messaggio.

È una contraddizione che vive pure del modo in cui ampia parte della Chiesa locale rappresenta se stessa – anche non volendo – come un mondo chiuso, privo di una trama, di un tessuto connettivo che la leghi alla società. Ciò la fa apparire poco incline a costruire rapporti di collaborazione. Perfino con i suoi interlocutori più vicini, o con quella rete di corpi intermedi che tanto potrebbe lavorare a creare un vissuto comune, cittadino, sociale. Eppure non mancano associazioni, anche non strettamente ecclesiali, movimenti civici e di volontariato spontaneo che possono avere più di un argomento in comune con la Chiesa.

La conseguenza di questa refrattarietà è che eventi importanti come il Congresso Eucaristico Diocesano rischiano di non trovare una sponda nella città. Per di più si ha l’impressione che all’interno del mondo ecclesiale certe proposte vengano date per scontate. Pare quasi che chi le vive, in fondo, senta di non avere nulla da imparare, né da portare fuori delle sagrestie.

Naturalmente, se da parte nostra è facile denunciare i problemi, molto più complesso è il compito, collettivo, di risolverli. Dal punto di vista della Chiesa sembra però ormai inutile arroccarsi in una posizione di difesa, nella convinzione che al di fuori della rassicurante vita di parrocchia ci sia un mondo perduto, incapace di capire o addirittura ostile.

Più utile alla Chiesa e alla città potrebbe risultare l’apertura, il rendersi permeabili, disponibili al dialogo e all’incontro. Lo si può fare senza paura quando si tiene presente che il messaggio cristiano è a misura di tutti e tutti possono coglierne la ricchezza. Senza dover necessariamente far cristiana tutta la società, ma provando ad aiutare quelli che sono in crisi, smarriti, affamati, fra l’altro, anche di parole di conforto. Una buona sfida, no?