Vota Antonio!

L’attualità del messaggio antoniano? È la scelta “politica” di quella povertà «lieta e volontaria» che «dà forza» per sostenere i poveri contro i prepotenti, gli usurai e i ricchi profittatori e che oggi può tradursi nella contestazione dell’asservimento al consumo e dell’abbrutimento davanti alla ferocia mercantile del liberismo.

Il giugno antoniano, a Rieti, è certamente un evento dalle molteplici prospettive. Si riferisce ad un uso che proviene dal passato, ma non è una semplice tradizione, reiterata stancamente. Ha un carattere potentemente popolare, ma non può essere ridotto al solo fenomeno di folklore. Ogni anno attira migliaia di persone, ma non è un contenitore svuotato di senso e mantenuto come attrattiva turistica. Vivo di pietà popolare e attaccamento alle radici, è anche pregno di attualità e di identità in mutamento.

Negli ultimi anni, forse più che in passato, pare che ai piedi del santo la città si guardi, si conti, si misuri. Non è un caso: quest’uomo, morto 780 anni fa, intorno alla fine del Medioevo, visse in un’epoca di profondo cambiamento. L’Europa sperimentava la nascita della società urbana e dei Comuni, lo sviluppo della produzione agricola e l’aumento della mobilità delle persone e dei commerci. Antonio parlava ad un’epoca di sviluppo e di crisi, dove i punti fermi del passato venivano scossi dal farsi avanti del nuovo. Una condizione che risuona molto con la nostra. Anche noi vediamo irreversibilmente modificati i nostri valori e nostri stili di vita, presi nel vortice delle nuove tecnologie e schiacciati dalla pretesa dell’economia di dominare il mondo.

È a partire da questo, forse, che si può tentare una lettura del fenomeno antoniano. Se l’inquietudine, la difficoltà, l’insoddisfazione, il senso di sgomento che ci appartengono in qualche modo furono anche suoi, le sue risposte potrebbero essere adatte anche a noi. In qualche misura, si potrebbe ipotizzare che la devozione antoniana, la ricerca della “grazia” secondo i diversi gradi di partecipazione e consapevolezza di ognuno, viva su questi paralleli della storia. Una “grazia” da intercettare come messaggio dinamico, aperto, in grado di fornire chiavi per il presente senza pretendere di ripristinare un passato ormai concluso e superato.

Il costante richiamo alla povertà, detto e testimoniato dal santo, fa parte di questo orizzonte di risposte. Il messaggio francescano di Antonio non è disprezzo dei beni, ma scelta di una via di liberazione e di avvicinamento al Bene. In questo senso il verbo antoniano risuona in tanti movimenti, anche laici, presenti nel mondo contemporaneo, per i quali la sobrietà è una opzione di desiderabile critica del mondo consumistico in vista di una felicità più autentica. La povertà ricercata con consapevolezza, non solo è ben diversa dalla miseria subita da tanti, ma contesta i meccanismi economici che, fiorendo sull’induzione a bisogni inutili, ne sono il presupposto. Accettata come dimensione di ragionamento, la povertà può rivelare il metro dei nostri condizionamenti e farsi motore del loro venir meno. Certo, occorre un discorso non fazioso, condotto con ragionevolezza. Occorre trovare di volta in volta il modo di sfuggire al pericolo di cristallizzarsi nell’amarezza e nella protesta per rimanere aderenti al costante mutamento della realtà.

Quando si parla di togliere l’oro dal simulacro di Antonio, in fondo, si parla di questo. Sarebbe un gesto piccolo, ma capace di invitare una moltitudine di persone ad una rinnovata aspirazione verso l’Alto, a mettere da parte quello che sembra prezioso e insostituibile per ottenere un salutare alleggerimento.

Una operazione che è possibile anche ad ognuno nel proprio quotidiano. Abbiamo tante abitudini incrostate addosso che ci condizionano. Potremmo pensare di rinunciare alla televisione e alla sua straordinaria capacità di determinare i costumi della società dei consumi, per riconquistare margini di vita interiore e di socialità. Oppure potremmo rinunciare all’auto, alla sua invadenza, ai problemi che pone e che certamente non sono risolti dalla ZTL e dalle polemiche che l’accompagnano. Potremmo ancora fare a meno del telefonino, e di tutti quegli oggetti che in qualche modo producono dipendenza o consolazione, per ricominciare a contare su noi stessi invece di riempire il vuoto esistenziale con le cose. Potremmo pure lasciare da parte la grande distribuzione, che sottrae umanità al lavoro, sfigura le periferie, uccide il centro della città, aumenta i rifiuti e accentra il controllo dei flussi economici, per consumare un po’ di meno e tentare la via dell’orto, o per tenere vive le botteghe di quartiere, le cooperative e l’artigianato.

Certo, sono tutte indicazioni da prendere con misura, cercando il proprio passo. Anche la liberazione della statua di Antonio dall’oro può avvenire poco alla volta. Con saggezza, il frate distingueva i vari gradi della virtù della povertà. Egli si teneva sul più alto e difficile, lasciando che gli altri si esercitassero su quelli verso cui si sentivano chiamati. Ciò non toglie che se si vuole festeggiare frate Antonio in modo proprio, occorre provare di essere capaci di accogliere la sua prospettiva per riportarla nell’attualità del nostro tempo. Le sue idee sono fatte per essere vissute. Riferirsi al santo senza cercare di metterle in pratica, falsifica il discorso e fa girare a vuoto l’intera macchina del giugno reatino. Certamente Antonio sapeva che il compromesso fa parte della natura umana. Questo però non ci giustifica, né deve farci rinunciare al tentativo di quella maggiore coerenza che, su certi temi, diviene fondamento di credibilità.


[poll id=”5″]