Voglia di rimanere

Che Rieti sia una città che si va facendo difficile e quasi inospitale, soprattutto per i giovani, è ormai un luogo comune. Non tutti però vanno via. E c’è pure chi prova a spendersi in prima persona.

Abbiamo incontrato Alessio, Daniele e Damiano, reatini, autori di “non sapevamo cosa fare… ed abbiamo fatto questo”, un volume da poco presentato all’Officina Dell’Arte di Rieti durante la Settimana della Cultura.

Diteci qualcosa di voi…

Siamo tre ottimi esemplari di esseri umani. Abbiamo circa trent’anni e siamo più o meno precari. Quando abbiamo lavorato al libro eravamo tutti e tre disoccupati, anche se in piena primavera creativa. Non siamo proprio degli scrittori, ma crediamo di avere qualcosa da dire.

Avete scritto un libro curioso. Restituite l’immagine della città attraverso le vostre lenti trentenni. Ne viene un ritratto ironico, a volte inaspettato, ma che ha il sapore di continue sconfitte.

Non chiamiamole sconfitte… sono state esperienze “formative”! Da primi e unici esponenti della letteratura “metafisica quantistica” non possiamo che chiamarle così (sorridono).

Ma esperienze di che cosa?

Sono esperimenti di cose in cui non abbiamo forse creduto fino in fondo. Spesso, del resto, ci siamo fermati di fronte a ostacoli tutto sommato piccoli. Oggi abbiamo forse l’occasione, tramite il nostro libro, di sollevare un dibattito su queste esperienze, con la speranza che più gente possibile possa interagire con le nostre considerazioni e dire la propria.

Come descrivereste la Rieti di oggi?

La Rieti di oggi ha il sapore ed il colore del “vorrei ma non posso” una città che vive nel suo provincialismo, nella sua chiusura, senza guardare oltre, come se fosse scomodo o costasse fatica. Speriamo che questo cambi, sinceramente…

Emerge comunque un grande amore per la nostra città, e la scelta di rimanerci nonostante in tanti vadano via.

Abbiamo la voglia di rimanere!

Perché?

Andare via sarebbe un po’ fuggire dai problemi, ma soprattutto da noi stessi. In fondo, è qui che siamo nati, ci siamo formati e abbiamo fatto tutte le nostre esperienze. Andare via avrebbe un po’ il sapore del tradimento. Piuttosto è tempo di rimboccarsi le maniche e trovare una idea comune che dia inizio a qualcosa di concreto. Sogniamo una città che si risvegli dal coma intellettuale da cui è afflitta.

Cosa occorre fare?

Gandhi diceva che la vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a danzare sotto la pioggia. Ovvero è inutile aspettare che la situazione migliori da sola, ma impegnarsi da subito a migliorare le cose in prima persona.

D’accordo, ma in concreto?

In poche parole è ora di finirla con le lotte da pianerottolo di condominio. Ognuno pensa al suo e questo non è un fattore di crescita. Un passo in avanti sarebbe affrontare le cose insieme, una meta comune, senza lasciarsi distrarre o sviare da frivolezze o dissapori personali. Il nostro è un monito, uno “svegliamoci” rivolto alla comunità, un invito a guardare oltre alle apparenze e iniziare a badare alla sostanza. Il campanello d’allarme è dato dal preoccuparsi del lampione sulla strada vicino casa che non funziona, e non notare che nel buio più assoluto ci siamo tutti, la città, la provincia, la regione, la nazione. Uscite, osservate, fatevi una vostra cultura, informatevi, siate avidi di capire e sapere, elaborate vostre teorie e collegamenti, perché se non lo fate voi lo farà qualcun altro al posto vostro sfruttando la situazione a proprio gusto e piacimento. Questo è il messaggio finale per i lettori.