Il vescovo agli studenti: «il lavoro ci aiuta a capire chi siamo»

Il tema del lavoro, e le tante e importanti domande che suscita in ciascuno, è stato al centro del primo incontro formativo della terza edizione del concorso “Filosofia e Natura”: nella mattina del 15 novembre, nell’aula magna dell’Istituto Tecnico per Geometri, il vescovo Domenico è intervenuto con una lezione molto apprezzata dai circa 100 studenti presenti, viste le numerose domande da loro formulate al termine dell’intervento

Non ha nascosto la crisi del lavoro, il vescovo Domenico, rivolgendosi agli studenti nell’incontro organizzato da diversi licei reatini nell’ambito del progetto “Filosofia e Natura”. Già in premessa, infatti, ha approfittato dell’anniversario della rivoluzione bolscevica per indicare il cambiamento storico nella percezione del lavoro. Nel tardo Ottocento e per quasi tutto il Novecento il tema occupava le migliori menti, era al centro delle scienze economiche e sociali, metteva in modo grandi processi sociali, lotte, rivoluzioni. «Il tardo XX secolo e questo primo scorcio di XXI secolo sono invece l’era del consumo e della finanza, non certo del lavoro».

Lo si vede anche dal linguaggio: il lavoro “e basta” sembra quasi non esistere e a scrivere “lavoro” su Google il motore di ricerca si affretta a proporre un termine in associazione: subordinato, interinale, precario, agile, nero…

Anche da questo, ha spiegato don Domenico, si vede che sul lavoro stiamo perdendo il «muscolo morale», la capacità di ricondurre quest’esperienza alla dimensione umana. Non che serva rifugiarsi in visioni romantiche o idealizzate: si tratta piuttosto di fare i conti con i radicali cambiamenti intervenuti negli ultimi vent’anni: nel modo di produrre, di consumare, di concepire bisogni e servizi. Meglio che lamentarsi è comprendere il mondo in cui si vive per poterlo abitare e migliorare. E se questa è l’epoca del “Bla Bla Car” e degli “Home Restaurant”, vuol dire che «la prima cosa, oggi, è immaginare lavori che non esistevano nell’età dei propri genitori».

Il tempo che viviamo «esige flessibilità, capacità di reagire alle opportunità che il mondo offre» e bisogna tenerne conto. Anche perché il lavoro non finirà: don Domenico ha infatti messo in guardia dai profeti che vedono nell’automazione e nello sviluppo della tecnica un progressivo restringimento delle opportunità occupazionali, materiali e immateriali: «In realtà gli esseri umani sono molto più creativi di quanto sospettiamo. E ci sarà sempre qualcuno che si inventerà sempre cose nuove».

Proprio questa mobilità aumentata, questo continuo estinguersi e nascere di professioni richiede però di riattivare il «muscolo morale» del lavoro. Perché il lavoro è tante cose insieme: è quello del primo articolo della Costituzione, ma anche quello annunciato dai cancelli di Auschwitz; è quello che crea delle cose più alte e nobili, ma può pure degenerare nello sfruttamento dei bambini o in situazioni di vera e propria schiavitù.

La qualità del lavoro dipende dalla visione dell’uomo che adottiamo, e in questa prospettiva il vescovo ha suggerito ai ragazzi alcune chiavi per orientarsi. Ad esempio, ricordando che la «remunerazione monetaria» è senz’altro un «criterio oggettivo», ma è altrettanto vero che molti lavori «non sono motivati dal denaro», come nel caso del lavoro casalingo. Oppure del volontariato, nel quale, pur senza un salario, si svolge «un’attività lavorativa» individuata dal «carattere sociale» dell’impegno, dal suo muoversi lontano dal campo degli hobby e del gioco.

Il lavoro – ha spiegato infatti il vescovo – si riconosce dal suo essere «linguaggio universale e sociale per eccellenza». Basta pensare all’approvvigionamento quotidiano di una città: i più cinici diranno che a muovere «il tran tran quotidiano» è solo l’interesse privato. In realtà, nel suo compiersi, il lavoro umano svela «la più grande forma di cooperazione umana mai realizzata nella storia».

Mons Pompili ha così lasciato intravedere una dimensione che va oltre lo «sbarcare il lunario». È vero, infatti, che «si lavora per sé e per la famiglia», ma il lavoro conserva «un valore sociale di indipendenza», un qualcosa che va oltre «il contratto» e apre a «un senso ulteriore». Non solo «mezzo per vivere», ma anche mezzo «per capire chi siamo». Non si conosce veramente una persona finché non la si vede lavorare, e senza lavoro non si conosce nemmeno sé stessi: «Per questo non si diventa adulti, finché non si lavora».

Perfino la fede non può prescindere dal lavoro: «La rivelazione biblica lo conferma. Dio si manifesta sempre a uomini che lavorano: Mosè che pascola il gregge, David che viene scelto mentre è nei campi, gli apostoli che sono chiamati mentre sono in riva al mare a pescare. Non c’è spiritualità senza lavoro e non a caso san Benedetto lega insieme: “Ora et labora”».

Desta allora preoccupazione che ad avvantaggiarsi del lavoro siano sempre più «le grandi rendite finanziarie e anche i top manager», che l’asse del potere economico è sempre più esterno alla fabbrica. Non solo perché si impoverisce chi lavora per sé e per la famiglia, ma anche perché si sottrae al lavoro il valore sociale, il suo essere un «dono» che va al di là dello stipendio. È infatti quello che ciascuno mette di suo nel lavoro che fa la differenza tra chi presta un servizio e chi lavora. E senza «questo surplus di umanità il lavoro rattrappisce e regredisce».

«La capacità di donarsi – ha incalzato il vescovo in conclusione – appartiene alla natura del lavoro umano, fonda l’attività lavorativa e la oltrepassa, la precede, l’accompagna e la segue. Usciremo dalla crisi se crescerà la domanda aggregata, se il Pil aumenterà, ma soprattutto se ciascuno reinventa il proprio lavoro, chiamando tutti assieme ad uscire fuori dai propri confini».