Venezuela: situazione drammatica. Esodo alla frontiera con la Colombia / VIDEO

Continua a essere caldissima la frontiera tra Venezuela e Colombia. In questi fine settimana è rimasta chiusa, contrariamente a quanto accaduto nei weekend precedenti. Avevano iniziato 500 donne che, sfidando l’esercito, avevano attraversato il Puente Santander, sul rio Tachira, ed avevano fatto la spesa in Colombia, nella città di Cúcuta. L’esercito le aveva lasciate fare, nonostante la frontiera sia chiusa dall’agosto 2015 per decisione del presidente venezuelano Maduro. Sette giorni dopo il ponte è stato attraversato da 60mila persone, quello ancora successivo da 120mila. Intanto tutti sono convinti che la drammatica situazione economica non si risolverà senza un ricambio politico

Scena numero uno, circa un mese fa. Puente Santander, sul rio Tachira, frontiera tra Venezuela e Colombia chiusa da quasi un anno. Cinquecento donne sfidano l’esercito e la guardia nazionale del Venezuela. Le dispense sono vuote, da mesi non riescono a fare la spesa. E decidono di farla in Colombia, nella vicinissima città di Cúcuta. I soldati non se la sentono di bloccarle. La settimana successiva il medesimo tragitto viene fatto da 60mila persone; 7 giorni dopo saranno 120.000. Lo scorso fine settimana la frontiera è rimasta sbarrata su accordo delle autorità regionali dei due Paesi. Ma cosa succederà prossimamente?

Scena numero due. Siamo in una famiglia “benestante”, il latte manca da dicembre. La famiglia un giorno trova miracolosamente un ristorante che espone un cartello, “Leche” (latte, cioè). Tutti contenti ordinano un caffelatte. Portano loro una bevanda bianca, ma il gusto è tutt’altro: sa di pittura…

Scena numero 3, in un centro di Caritas Venezuela. I volontari sono assediati e faticano a rispondere alle crescenti richieste.

Le tre scene mostrano il dramma crescente del popolo venezuelano.

Caritas mobilitata. Ripartiamo dall’ultima scena e dalla Caritas. Ce ne parla da Caracas Janeth Marquez, direttrice esecutiva di Caritas Venezuela:

“Le richieste si stanno moltiplicando. La carenza più grave è quella di medicinali. Ma il nostro è sempre più un aiuto anche psicologico, la gente è sfiduciata e depressa, sta morendo la speranza. Noi siamo a disposizione, vorremo poter aiutare di più”.

In effetti la Chiesa gode della fiducia della popolazione, esistono trenta Caritas diocesane, la rete delle parrocchie. Il tema degli aiuti internazionali è stato politicizzato, finora il Governo non li ha permessi. “Ma stiamo negoziando – ci dice la direttrice -, speriamo che venga consentito l’ingresso di aiuti da parte della cooperazione internazionale. Da soli non ce la possiamo fare”.
Bisogna far fronte all’inflazione galoppante (nel 2016 sarà almeno del 700%). E al cosiddetto “Bachaqueo”, il prezzo dei prodotti gonfiato da coloro che si riforniscono al mercato nero. Se il sussidio mensile per i bisognosi che ammonta a 15mila bolivar (circa 15 euro), un chilo di farina ne costa 4mila, un chilo di zucchero 3.500, un chilo di latte in polvere per neonati 15mila bolivar.

Vuote anche le dispense dei ricchi. Entriamo così nel dramma quotidiano delle famiglie. Jennifer Delgado Alvarez, avvocato, attualmente residente a Bogotá, dove è studente all’Università Externado de Colombia, da poco è tornata in patria a salutare i genitori. È lei a raccontare la vicenda della pittura spacciata per caffè. “La mia – racconta – è una famiglia di classe medio alta. Ma quando sono stata lì, mancavano shampoo e dentifricio, latte, riso, farina, pasta. Ogni famiglia ha una tessera attraverso la quale può fare solo una piccola spesa settimanale, ma molti prodotti non sono reperibili. Per molti l’unico pasto è la buccia di mango o di platano”.
Drammatica la situazione dei bambini: “Mia mamma lavora come psicologa in una scuola, i ragazzi arrivano a scuola spossati, a volte non mangiano da due giorni. Per ‘lonchera’, il pasto che si portano da casa, solo manghi – quelli cadono dagli alberi – e plátani”.

Esodo biblico in frontiera. Dentro a questa situazione, ecco l’esodo in Colombia nei weekend, la prima scena che avevamo descritto. Un esodo che per la verità coinvolge soprattutto la classe media, i poveri non si possono certo permettere, con il cambio sfavorevole, una spesa in Colombia. “Anche se – ci dice al telefono il vescovo di Cúcuta, mons. Víctor Manuel Ochoa Cadavid – ho visto qualcuno comprare solo un chilo di riso”. Mons. Ochoa ha fatto il suo ingresso a Cúcuta da circa un anno e ha già dovuto affrontare due emergenze umanitarie:

“Lo scorso agosto ci fu la chiusura della frontiera e l’arrivo in Colombia di 31 persone, fuggite o deportate. Ora fronteggiamo questo esodo. In una domenica sono stati spesi 6 miliardi di pesos colombiani, 10 milioni di euro”.

Lo stesso mercato colombiano fatica a reggere l’urto, molti prodotti vengono convogliati verso la frontiera, la carta igienica sparisce per alcuni giorni dagli scaffali dei supermercati di Bogotá, a quasi 600 chilometri di distanza. Prosegue il vescovo: “Gran parte delle persone fanno ritorno in Venezuela in giornata, ma ci sono delle eccezioni, come ad esempio malati e mamme venezuelane incinte”. L’impegno della Chiesa è per quelle persone che sono uscite in questi mesi dal Venezuela: “Gestiamo ad esempio 2mila buoni pasto da circa 39mila pesos (11 euro), cerchiamo di stare vicini in tutti i modi. Mons. Ochoa si sta adoperando per la riapertura definitiva della frontiera: “È un confine di gesso, siamo uno stesso popolo”.

Il nodo del referendum. Intanto tutti sono convinti che la drammatica situazione economica non si risolverà senza un ricambio politico. Jennifer Delgado apre uno squarcio sulla crescente oppressione politica. Racconta dello zio, generale delle forze armate, caduto in disgrazia solo per essersi ritirato, ora agli arresti, racconta dell’amico studente universitario arrestato per aver raccolto firme a favore del referendum revocatorio. L’opposizione, dallo scorso dicembre maggioranza in Parlamento, ha chiesto infatti che si tenga un referendum per far dimettere Nicolás Maduro. Ma il presidente, che controlla esercito, polizia e magistratura, sta prendendo tempo. Infatti, solo se si voterà entro il 2016 si andrà a nuove elezioni; se invece il referendum si terrà nel 2017 il potere passerà al vicepresidente. Non passa giorno che tra Parlamento e Governo ci siano attacchi e veti incrociati. Anche la disponibilità ventilata da Maduro la scorsa settimana per consentire una mediazione vaticana non è stata seguita da passi ufficiali.
Conclude la studentessa: “Il Venezuela è una bomba a orologeria, potrebbe esplodere in qualsiasi momento”. E l’unica via d’uscita democratica pare al momento la rapida celebrazione del referendum, chiesta anche dai vescovi venezuelani.