«Viviamo in un tempo di grandi contraddizioni ma anche di grandi domande, che ci costringono a disinnescare il pilota automatico e a misurarci seriamente con quanto di veramente umano c’è in noi»: esordisce così il vescovo Domenico chiamato a dire la sua sulle unioni civili dal mensile free press «Link».
«Quello che molti non riescono a comprendere – spiega mons. Pompili – è che siamo in cammino. Si vorrebbe già essere arrivati, possedere risposte chiare e distinte, poter tracciare un confine netto tra lo spazio del bene e quello del male. Invece di questo spazio, ci e dato il tempo della domanda. Che va abbracciata, lasciando che ci inquieti, senza voler per forza trovare subito la risposta, ma cercando di capire, strada facendo, qual è la direzione più umana da percorrere. Tenendo la bussola del Vangelo, delle parole del Papa, del discernimento comunitario».
Secondo il vescovo «Ci sono segni dei tempi che vanno letti e assunti, che aiutano a purificare, più che a impedire – come molti sostengono – il nostro sforzarci di vivere sulla via tracciala da Gesù. Uno di questi, è la cancellazione del limite. Che in parte ha portato cose buone, perché molti limiti andavano tolti (pensiamo a quelli che pesavano sulla vita delle donne), ma che non può essere consegnata alla legge della fattibilità».
«Purtroppo – lamenta mons. Pompili – la riflessione sulle questioni antropologiche fondamentali, alla luce delle nuove possibilità tecniche e delle sfide culturali, si è ideologizzata pesantemente, che è un modo per sfuggire alla fatica dell’ascolto, della riflessione, del confronto».
Il punto, spiega il vescovo, è che «dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili, non si può impedire che il mondo vada in una direzione che ci pare sbagliata».
Come il padre misericordioso della celebre parabola non ha potuto né voluto impedire al figlio di andarsene di casa e passare attraverso esperienze negative. Non l’ha lasciato andare perché era d’accordo, ma nonostante non lo fosse. Non solo, ma gli ha dato la sua parte di patrimonio, perché potesse perseguire il suo progetto di autonomia, pur ritenendolo sbagliato. Il figlio che se ne va, peraltro, non impedisce a quelli che continuano ad abitare la casa di cercare di vivere ispirati da ciò in cui credono: troppe volte diamo la colpa al mondo delle nostre miserie.
«Questo può fare la Chiesa oggi», aggiunge il presule: «stare sulla soglia, con le braccia aperte non perché approva ogni cosa e perché tutto va bene, ma perché è questo il messaggio che può dare. Esserci, indicando che un’altra via è possibile: quella del limite come condizione di pienezza, perché riconoscerlo ci apre a qualcosa che non possiamo fabbricare nemmeno con le tecniche più sofisticate, e che salva le nostre vite dal non senso».
Ciò detto don Domenico aggiunge una nota su come nell’opinione pubblica si ‘discute’ il tema delle adozioni: «La superficialità, la strumentalità e il livello di ideologizzazione emerso nel dibattito sui media ci deve far pensare».
La retorica sul ‘diritto dei bambini ad avere una famiglia’, che nasconde in realtà il bambino come diritto della coppia, mostra come ciò che è apparentemente al centro, in realtà è un pretesto. Al centro c’è l’io. L’adozione è un percorso in sé difficilissimo. I casi di fallimento adottivo conclamati sono già allarmanti: bambini ‘restituiti’ perché troppo problematici, o perché i genitori scoprono di non essere in grado di affrontare le questioni complesse che si presentano. Ma moltissime sono anche le forme di disagio che i bambini adottati manifestano: basta parlare con psicologi e psichiatri dell’età evolutiva per avere almeno un’idea della gravità del problema.
«La questione dell’adozione è difficile di per sé» conclude il vescovo. «Affrontarla come si sta facendo, come un diritto dell’adulto, è una via certa per produrre sofferenza».