Una solitudine troppo rumorosa

«Faccio quello che mi pare come mi pare» è l’istantanea dell’italiano del Terzo Millennio.

Nei giorni scorsi i media hanno posto grande attenzione su due fatti. Ci sono stati la nascita del Governo Letta e il gesto disperato di un muratore disoccupato e separato dalla moglie di fronte a palazzo Chigi.

Il primo caso si direbbe il meno interessante. Nulla di nuovo sotto il sole: la coalizione che sostiene il nuovo esecutivo è la stessa di quello di prima. È possibile che le politiche cui abbiamo assistito finora subiscanoz qualche piccola revisione. Ma sembra legittimo prevedere che grosso modo si continuerà per la strada già intrapresa. Se questo sia un bene o un male lo giudicherà il lettore in base alla sua esperienza.

Più interessante, invece, è il secondo caso. L’uomo, armato di pistola, ha sparato e ferito alcune persone. Il poveretto non ha fatto in tempo a compiere il suo gesto insano, che schiere di commentatori hanno preso a dire la loro. Un grande sforzo che ha avuto il risultato di occupare video e giornali con le solite banalità: «è un gesto da condannare senza “se” e senza “ma”», «è un prodotto della crisi economica», «è colpa dell’antipolitica»…

Saranno pure cose vere e condivisibili, ma poi? Non sarà che a forza di cercare l’intuizione profonda, lo spunto originale, in tanti hanno dimenticato di fare una semplice constatazione?

Anche i nostri lettori, ne siamo sicuri, si saranno accorti che la storia di Preiti, così si chiama il protagonista, sembra essere una storia semplice. Non ci sono spettri da evocare, non c’è da costruire dietrologie.

Pare infatti che l’uomo abbia agito in assoluta autonomia. Ed è proprio questo il punto. In questi casi si punta sull’infermità mentale, su un momentaneo ammanco della ragione dovuto alla disperazione. Queste cose ci stanno, ma il tema vero sembra essere proprio la solitudine.

Di Preiti sappiamo che è un uomo solo, abbandonato dal lavoro e dalle istituzioni, separato dalla moglie. Ma se allarghiamo lo sguardo vediamo che è la società stessa ad essere sempre meno inclusiva, priva di prospettive comuni a cui aderire. I legami e le relazioni sociali sono sempre più fragili e inconsistenti. L’individualismo sembra essere l’unico modo di porsi di fronte al mondo.

«Faccio quello che mi pare come mi pare» è l’istantanea dell’italiano del Terzo Millennio. Un rapporto del Censis del 2011 spiegava che l’85 per cento degli italiani ritiene di essere arbitro unico dei propri comportamenti. In questo senso, i compromessi, pur di raggiungere il proprio fine, sono accettabili, così come la violenza.

Quando l’uomo ritiene di potersi definire da solo, di potersela cantare da sé, di poter dare ascolto solo agli ideali integrati nei propri comodi, commette il peccato di Lucifero, l’errore di Adamo ed Eva. Crede di poter stabilire da sé cosa è bene e cosa è male. Con questa morale unilaterale, il farsi giustizia da soli non diviene forse l’unica forma di giustizia possibile?

Forse esageriamo. Eppure ci sembra proprio arrivato il momento di invertire la rotta, di tornare a tracciare le esistenze all’interno di una dimensione comune, di una qualche – ce lo permetterete – ecclesia.

Il problema è come riuscirci. Ma sembra che una certa consapevolezza in questa direzione – nonostante tutto – si stia affermando. L’esperimento del Primo maggio a Rieti, ad esempio – con l’inedita sinergia tra Pro Loco e Sindacati – come pure una ritrovata alleanza tra i lavoratori e la Chiesa locale, raccontano qualcosa del genere.

Ovviamente si tratta di processi ancora deboli e incerti, sicuramente insufficienti. Ma le premesse sembrano buone.

Una nuova consapevolezza sembra iniziare ad avvolgere i fenomeni che hanno spinto la società, i lavoratori e la famiglia alla frammentazione. A poco a poco sembra stia tornando a farsi avanti l’idea che certe derive si possono contrastare solo riportando il confronto su un piano collettivo.

Vale la pena di lavorarci sopra: c’è da unire le vertenze, mettere in rete i problemi dei quartiere, fare in modo che le associazioni di categoria difendano insieme la collettività e gli interessi dei propri iscritti. E soprattutto ci sono da ricostruire modalità di rappresentanza collettiva credibili e realmente partecipate. Ci riusciremo?