Un futuro federale per la Siria sul modello bosniaco: unica soluzione possibile?

Riprendono a Ginevra i colloqui di pace per la Siria sotto l’egida Onu. In attesa di conoscerne l’esito, si fa strada l’ipotesi, gradita a Usa e Russia, di uno Stato confederato (alauiti, curdi e sunniti) sul modello balcanico della Bosnia nata con gli accordi di Dayton del 1995. Uno scenario possibile, secondo il generale Carlo Jean. Resta forte la necessità di trovare una soluzione politica e diplomatica che ponga fine alla distruzione di un Paese, la Siria, detentore di un patrimonio di convivenza e di dialogo unico nella regione. Un patrimonio che deve essere la base della sua ricostruzione.

Dovrebbero entrare nel vivo, a partire da oggi 14 marzo, a Ginevra, i colloqui di pace inter-siriani che vedranno la partecipazione di rappresentanti del Governo di Bashar al Assad e dell’opposizione. A dare l’annuncio dei colloqui era stato, lo scorso 9 marzo, l’inviato dell’Onu per la Siria, Staffan de Mistura. I negoziati si svolgeranno in “modalità indiretta”, vale a dire che i rappresentanti delle varie parti non s’incontreranno e De Mistura ricoprirà il ruolo di mediatore. Questa tornata negoziale dovrebbe terminare il 24 marzo, con una pausa di qualche giorno per dare il tempo alle delegazioni siriane di riferire una volta tornate in patria. Il negoziato, nonostante le difficoltà, sembra partire con il piede giusto anche alla luce della tregua che sta permettendo agli aiuti di arrivare alle città e nelle aree poste sotto assedio dalle fazioni in conflitto. Dieci le zone finora raggiunte dall’Onu il cui piano prevede che fino alla fine di aprile, dovrebbero essere circa 900mila le persone che riceveranno assistenza umanitaria. Secondo l’Onu sarebbero ancora sei, al momento, le aree non ancora raggiungibili dagli operatori umanitari. In attesa di capire quale possibili soluzioni potranno essere trovate a Ginevra – la speranza è che il negoziato non si areni come accadde lo scorso 29 gennaio –

prende sempre più corpo l’ipotesi di uno Stato confederato tra curdi, alauiti e sunniti. La Siria, dunque, come la Bosnia disegnata dagli accordi di Dayton del 1995

lungo linee di demarcazione etniche e confessionali con la creazione di due entità interne allo Stato di Bosnia Erzegovina: la Federazione Croato-Musulmana e la Repubblica Serba. A rendere praticabile questo scenario spartitorio di “balcanizzazione” è il sì degli Usa, oppositori di Assad, e adesso anche dei Russi che del regime siriano, invece, sono alleati.

Una Bosnia mediorientale. Secondo il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e di geopolitica, l’ipotesi federalismo per la Siria “è possibile. Si tratterebbe di istituire tre regioni dotate di forte autonomia amministrativa.

Una regione curda a Nord, una occidentale alauita , nella quale potrebbero ritrovarsi anche drusi e cristiani con capitale Damasco, e una sunnita, centrale con capitale Raqqa, nell’area corrispondente ai territori oggi occupati dallo Stato islamico, da liberare e da porre sotto controllo degli oppositori di Assad, quindi dell’esercito della Siria Libera e dell’Esercito democratico della Siria”.

“Questa soluzione – ricorda l’analista – sarebbe molto simile a quella adottata sotto l’impero Ottomano, caratterizzato da forti autonomie locali. Bisognerà poi vedere se gli insorti si accontenteranno di questa autonomia concessa loro dallo Stato centrale. La storia insegna che in ambiti etnico-confessionali, la fedeltà della popolazione non va tanto allo Stato ma alla propria etnia o religione. Nell’impero ottomano c’erano i giannizzeri, l’élite dell’esercito imperiale, a riportare all’ordine tutti coloro che osavano alzare la testa. Senza autorità centrale non c’è ordine” annota il generale. Uno Stato centrale “guidato da curdi, alauiti e sunniti”, seguendo il modello bosniaco, potrebbe rappresentare “una soluzione transitoria. Nel lungo periodo – avverte Jean – avrebbe molti problemi. Basti vedere il rischio frantumazione che corre oggi la Bosnia.

I conflitti identitari, a sfondo etnico e religioso, non sono risolvibili come le guerre tradizionali, con un trattato di pace firmato da ambasciatori con tanto di spadino e feluca. È un genere di conflitto che non ha una fine precisa, pronto sempre a riesplodere”.

Un patrimonio da preservare. Se il futuro della Siria sarà deciso a tavolino o nel campo di battaglia è difficile dirlo. Certamente, ribadisce il generale, “della guerra ne hanno tutti abbastanza. L’asse Usa-Russia potrebbe determinare la fine della guerra – afferma Jean -. Basterebbe interrompere il flusso di munizioni. Di armi in campo ce ne sono a sufficienza, mancano le munizioni che invece devono essere fornite”. A cambiare le sorti del conflitto non saranno nemmeno le urne. Assad ha indetto il voto per aprile, ma, sottolinea l’analista, “alle urne andranno solo gli alauiti. Come potranno votare coloro che stanno combattendo, che sono fuggiti, o emigrati? Non sono elezioni credibili”. Potrebbero esserle invece quelle presidenziali e legislative, da tenersi sotto egida Onu entro 18 mesi, come auspicato da Staffan De Mistura, presentando i colloqui di Ginevra. In questi giorni Oxfam ha pubblicato un rapporto su quanto accaduto in Siria nel 2015, anno in cui si è registrato il numero più alto di morti dall’inizio del conflitto. Stime delle Nazioni Unite parlano di 50mila perdite nel 2015, per un totale di 250mila vittime dall’inizio del conflitto, numeri in difetto. Senza contare le centinaia di migliaia di feriti, i milioni di sfollati interni e di rifugiati. Davanti a questo scempio trovare una soluzione diplomatica e politica deve diventare, ogni ora che passa, sempre più prioritario nell’agenda delle Potenze internazionali. Manca ormai poco alla distruzione del patrimonio di convivenza e di dialogo che la Siria, come altri Paesi limitrofi, vedasi il Libano, ha sempre preservato. In gioco non ci sono solo il passato e il presente di tutto il Medio Oriente, ma anche il suo futuro e quello dell’umanità intera.