«Prima c’è stato l’ingresso nella vita fraterna e francescana, poi la scoperta di questo dono che non avevo riconosciuto per tanti anni». Così padre Marcello Bonforte, uno dei tre frati che compongono la fraternità interobbedenziale di Rieti, racconta la sua vocazione di pittore, maturata all’interno di quella religiosa. Tra le stanze di Palazzo San Rufo, che condivide con il cappuccino fra Fabio e il conventuale padre Luigi Faraglia, ce n’è infatti una speciale, dove il frate minore ha ricavato il suo studio. Un atelier oggi affollato da tele, tavolozze, tubetti di colore, pennelli. E su un tavolinetto, una pila di compact disc da far suonare in uno stereo portatile, come necessario sottofondo al momento creativo. Ma le cose non sono sempre andate così. All’università Marcello studiava ingegneria meccanica. E la vita in fraternità è stata una scoperta quasi casuale, avvenuta seguendo quelle strane coincidenze con cui chiamiamo le vie del Signore.
Imperativo categorico
A volte i Suoi progetti si manifestano come figli del caso, in altre circostanze le cose maturano lentamente. La chiamata alla pittura di padre Bonforte è invece arrivata forte e chiara e il frate la ricorda con precisione: «È successo in una maniera un po’ strana, a Teramo, dov’ero sfollato dopo il terremoto dell’Aquila. Era un’assolata giornata di giugno, con un cielo di quell’azzurro intenso che ti conquista. Stavo attraversando il convento quando a un certo punto arriva un’ingiunzione secca, limpida, sonoramente chiara e pungente: dipingi! Ne ero anche un po’ contrariato. Poi mi sono reso conto che questa cosa è sempre stata presente nella mia vita. Amavo passare il tempo guardando i quadri nelle gallerie, ma non avevo riconosciuto di dover obbedire a questa esigenza artistica. Invece mi ha cambiato la vita: ho comprato l’attrezzatura, mi sono accorto che la città era piena di pittori. Prima non l’avevo notato ed è stata una cosa entusiasmante. E non mi ha più mollato. Anzi, cerco di mantenermi fedele a questa ingiunzione, che all’inizio mi metteva addirittura in affanno. Sentivo quasi la colpa di non aver dipinto nei decenni precedenti. Poi mano a mano ho imparato a governare questa urgenza».
Un’unica chiamata
La pittura per frate Marcello non è una seconda vocazione, ma l’integrazione di un’unica chiamata: «è una parte della mia umanità, del progetto nel quale sono stato coinvolto». E non solo perché in fondo è quasi un altro aspetto della meditazione e della preghiera, ma perché «è ben incastonata con tutto il resto, non è giustapposta, ma si è come sciolta nella vita francescana».
Questo scoprire sotto lo stesso cielo le passioni della vita e la dimensione religiosa è un po’ al cuore dell’esperienza di Francesco: «La sua lezione – spiega padre Marcello – è scoprire che Dio ci tiene tanto che ciascuno possa realizzare ciò che di vero ha nel cuore. Guardiamolo bene: era uno che voleva esser “grande” e ci ha provato percorrendo strade diverse. Ha fatto tentativi incredibili attraverso la guerra, nel commercio, organizzando feste e partecipando a crociate. Il Padreterno deve averlo guardato e detto: “diamogli una mano a questo, che non ci azzecca per niente!”. E gli fa capire che questa fame e sete di realizzazione è una cosa alla quale Dio tiene tantissimo, lo conduce sul percorso giusto, che Francesco replica nel modo in cui accoglieva i frati».
La fraternità è per la valorizzazione dell’umano, «infatti attorno a Francesco è cresciuta una sorta di “industria tessile”: una trama fatta da primo, secondo e terzo ordine, quasi uno specchio del progetto di Dio di un’umanità che tesse relazioni con il Signore, con gli altri, con la creazione, con sé stessa.
Forse è questo che ha riportato l’esperienza francescana sotto lo sguardo di tanti, il suo essere qualcosa che aiuta tutti ad entrare nella vita e a rimanerci per sempre, ad ascoltare l’offerta di vita che Dio fa ad ognuno di noi».
Il suggerimento sembra quello di superare un’artificiosa separatezza tra vita quotidiana ed esperienza religiosa. Forse è un sintomo di una società che non riesce più ad immaginare Dio come ce lo racconta Gesù, che non si fida più della possibilità di vivere secondo il Vangelo. E invece è proprio questo il cuore della Regola che andiamo a riscoprire mentre compie ottocento anni. Non si tratta di norme e prescrizioni, ma di un’indicazione di senso, qualcosa che può sciogliere l’indifferenza e guidare a riorganizzare spazi, progetti, sensazioni, emozioni, visioni politiche.
La vocazione come inciampo
E dire che Marcello nella vita religiosa c’è entrato quasi per inciampo: un corso vocazionale frequentato in vacanza ad Assisi con le sorelle, quasi per ingannare l’attesa di essere raggiunti dai genitori rimasti a Bergamo per i loro impegni di insegnati. Cinque giorni a contatto con la Sacra Scrittura che hanno aperto nuovi orizzonti: «A vent’anni se uno non è proprio sgangherato e sciupato, custodisce delle domande fondamentali con le quali cerca di interloquire e interpellare anche il mondo che ha intorno», ricorda padre Marcello. «Quelle domande trovavano un interlocutore incredibile nella voce di san Francesco. E allora ho voluto approfondire e nella fraternità ho trovato una chiave per stare al mondo. Erano anni opprimenti, in cui aleggiava il terrore della guerra nucleare, il dubbio che qualcuno alla fine avrebbe premuto il bottone e messo fine a tutto. E Francesco mi ha spiazzato con la “perfetta letizia”, mi ha folgorato con una visione diversa della vita. Così, nel giro di poco ho mollato tutto: ragazza, famiglia, studi. In fraternità sono potuto restare fedele alle mie domande. E quando si è onesti con sé stessi, s’incontrano interlocutori significativi e tra questi c’è il buon Dio».
La lezione della bottega
Marcello cambia percorso universitario e consegue la laurea in filosofia. Un altro aspetto della sua ricerca che per anni lo impegnerà come docente presso l’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano e anche come insegnante di religione nelle scuole. E quando con il calo delle vocazioni c’è stato meno bisogno di professori, il suo impegno è diventato quello di parroco. «I frati devono lavorare di onesto lavoro e tutta l’attività ministeriale è un impegno serio», riconosce. «La differenza con gli anni dell’insegnamento è stata nel poter dirottare le ore di studio sui libri a quelle dedicate alla studio della pittura. Ho smesso di essere un autodidatta e sono andato bottega, da quella splendida maestra che è Gabriella Capodiferro. Mi ha accolto nel movimento del “Guardare creativo” e incidentalmente mi ha illuminato anche sul modo di dare forma al mio ministero sacerdotale. Negli allievi cerca di favorire percorsi personalizzati di ricerca pittorica, e ho capito che innanzitutto questo un pastore deve fare: accogliere gratuitamente, aiutare ciascuno a capire ciò che gli è appropriato, quale spazio gli appartiene e non gli può essere sottratto. Questa consapevolezza, in un mondo tanto competitivo, compie il miracolo di abbassare i conflitti e accrescere la collaborazione».
Strategie dell’incontro
Attraverso l’arte diviene più importante che mai il confronto, capire lo sguardo degli altri. «L’idea di fare mostre personali mi sembra una vanità, non mi piace che le cose girino attorno a me, mi fa sentire fuori posto. Mi piacciono invece le mostre collettive, il guardare creativo insieme è entusiasmante. È un modo per verificarsi. Però ho capito che non posso eludere il confronto personale, così durante la pandemia ho iniziato a diffondere i miei quadri su Whatsapp. La mia scelta pittorica parte fondamentalmente dal colore più che dal disegno e ho scoperto che questo crea nelle persone un effetto terapeutico. Mai mi sarei aspettato di sentirmelo dire».
L’opportunità unica di palazzo San Rufo ha poi fatto maturare in padre Marcello una sorta di nuova strategia: quella di ricevere le persone in studio, accompagnarle in una visita guidata alle tele che nel frattempo hanno trovato posto sulle pareti dell’edificio e discutere insieme delle opere in un contesto più fraterno di quanto non accada nelle mostre.
Il prossimo progetto è di avere qualche tela accolta negli spazi della Mensa Santa Chiara, al Seminario: «Sono spazi bellissimi, che restituiscono un grande senso di accoglienza alle persone. Ho pensato che forse qualche incontro prezioso attraverso la pittura potrei farlo anche lì: vediamo se è possibile».