Camminare: è la prima parola-guida indicata dal vescovo Domenico in vista dell’Incontro pastorale che a settembre coinvolgerà tutta la diocesi. Un’«azione elementare» che, insieme all’edificare e al confessare, aiuta a «ritrovare insieme il senso del nostro essere Chiesa».
In un tempo in cui un po’ tutti sembriamo aver perso la bussola, l’invito del vescovo sembra salutare e necessario. Perché camminare è un modo di pensare, di accogliere il mondo. Camminare vuol dire attraversare un paesaggio, quello del territorio, che è insieme geografico e mentale, alla ricerca di nuovi punti di riferimento.
Camminare è cioè un modo di pensare, perché si cammina sempre in un contesto, e questo sollecita a farsi domande, a interrogarsi sul rapporto con gli altri e con il mondo. Chi cammina non è mai isolato: anche quando cammina da solo è in relazione: va incontro. L’isolamento è prerogativa della sedentarietà, non del movimento.
«Bisogna camminare – ha avvertito don Domenico – perché diversamente ci si blocca e l’aria ristagna». Ma oltre che dall’immobilità, il mettersi in cammino salva anche da una certa frenesia contemporanea, mette in discussione i valori fondamentali della nostra epoca: quelli della velocità, dell’appropriazione, della tecnica. Nel ribaltare tutto questo, il gesto semplice, umanissimo, del camminare, si mostra come uno straordinario esercizio di libertà interiore oltre che di movimento.
Per certi versi, si direbbe proprio l’orizzonte al quale è chiamato il Cammino di Francesco. Una riscoperta dell’esperienza personale, fatta a debita distanza da qualsiasi forma di turismo generico, perché richiede un coinvolgimento personale, anche fisico, che oggi non è certo scontato. Lo si vede anche nello sguardo distaccato che per altro verso incontrano le processioni e i pellegrinaggi. Ad esempio, quelli in onore della Santissima Trinità o quelli per il Corpus Domini vissuti lo scorso fine settimana. Gesti della pietà popolare talvolta considerati stonati, scaduti, fuori dal tempo. Eppure, sono un’immagine autentica della Chiesa in cammino, dell’inesauribile tentativo di muoversi verso Dio, di “portare avanti” la fede.
Ma in fondo questa difficoltà non deve stupire. Quello di mettere un passo dopo l’altro è forse il gesto più umano che c’è, ma non è detto che sia anche il più comune. Sarà che, dopo cinquant’anni di motorizzazione di massa, quella del camminare è diventata un’attività strana, anomala, da tenere d’occhio. Dopo tutto, al giorno d’oggi, a muoversi a piedi sono soprattutto le categorie problematiche dei migranti regolari e clandestini, degli zingari, dei disperati economici. Uomini, donne e bambini che a tanti mettono paura e provocano disagio. Un malessere che trova terreno fertile in una crisi economica e di valori profonda e dalla quale stentiamo a riprenderci.
Forse anche perché, travolti dall’automazione e dall’informatizzazione, non sappiamo più confidare nei muscoli. E dire che Gesù impose a Lazzaro la risurrezione ordinandogli di alzarsi e camminare. Un antidoto contro l’agonia che anche nella nostra società potrebbe avere qualche chance di successo.