È stato presentato il bilancio di un nuovo biennio per l’Osservatorio delle povertà e delle risorse, strumento di osservazione della situazione locale portato avanti sin dal 1999 dalla Caritas diocesana.
L’iniziativa si è svolta nel pomeriggio di mercoledì 28 maggio (clicca qui per la galleria fotografica) ed ha messo in evidenza l’andamento dei dati degli anni 2012 e 2013.
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A curare l’esposizione i curatori Massimo Spadoni e Mario Londei. Sono intervenuti il vescovo Delio Lucarelli, la prefetto Chiara Marolla, la presidente dell’Asm Enza Bufacchi e altre autorità. L’Osservatorio si prefigge di ottenere il maggior numero possibile di informazioni relative alle persone in difficoltà che transitano negli uffici della struttura caritativa diocesana, con raccolta di dati ed elaborazione statistica in grafici e tabelle, così da poter conoscere meglio il fenomeno della povertà locali e calibrare in modo più adeguato gli interventi di aiuto.
Al termine della presentazione è stato inoltre inaugurato l’Emporio, un tentativo da parte della Caritas diocesana di mettersi al fianco dei più deboli attraverso nuove strategie. A margine della presentazione abbiamo rivolto alcune domande al direttore Caritas Don Benedetto Falcetti.
Don Benedetto, mercoledì è stato presentato l’Osservatorio Caritas delle povertà e delle risorse per il biennio duemiladodici duemilatredici. Quali sono le novità rispetto a un paio d’anni fa?
Tra le persone che si rivolgono alla Caritas sono leggermente aumentate le problematiche legate alle famiglie. Nella richiesta di aiuto sono aumentate le famiglie e diminuite le persone sole, le persone che vivono in situazione precaria. Che poi spesso sono divorziati o conviventi che hanno bisogno di essere sostenuti.
Sfogliando la bozza del nuovo Osservatorio ed osservando i grafici, sembrerebbe siano aumentati gli italiani e diminuiti gli stranieri…
Sono aumentati gli italiani… c’è stata sempre e una grossa base di italiani fra le persone che vengono alla Caritas. Ma un certo spostamento di equilibrio c’è stato. La crisi che viviamo nel nostro territorio ha fatto sì che molte persone, soprattutto dell’Europa dell’Est, nel momento in cui perdono il lavoro non riescono più a trovarne un altro. Di conseguenza preferiscono ritornare al loro Paese.
Di fronte a questa diminuzione di prospettive, quali sono le scelte della Caritas?
Cerchiamo di vagliare al meglio tutte le richieste, di essere il più accurati possibile. Purtroppo i bisogni aumentano, ma noi non abbiamo la possibilità di accontentare tutti. Allora cerchiamo di essere vicini a situazioni che veramente sono all’ultima soglia. Anche se, di per sé, arrivare alla Caritas è già l’ultima soglia di aiuto che si chiede e che è possibile ottenere.
Il cambiamento di provenienza delle richieste, potrebbe dipendere anche dalle politiche sull’immigrazione che fa il Governo?
Mah, non è che da noi ci sia questo grande flusso migranti. Probabilmente perché come territorio non abbiamo lavoro da offrire, di conseguenza non abbiamo una forte possibilità di accoglienza. Le persone che si fermano dalle nostre parti hanno già una base costituita da parenti o amici. Ma normalmente la città è un luogo di transito. I migranti stanno un po’ di tempo e quando vedono che non c’è possibilità si spostano nei paesi del Nord. Ne abbiamo ampia esperienza anche grazie al progetto Sprar che portiamo avanti. Finito il progetto, pochissimi si fermano a Rieti. La maggior parte va nei Paesi scandinavi.
Che tipo di contributo potrebbero dare le Caritas parrocchiali, non solo della città, ma anche della periferia della diocesi?
Il nostro rapporto con le Caritas parrocchiali è importante, fondamentale. Perché è tramite la loro vicinanza alle situazioni che possiamo verificare le storie che arrivano al Centro d’Ascolto. Cerchiamo sempre di incrociare i nostri dati con quelli delle strutture parrocchiali. A questo talvolta si sommano alcune visite che noi facciamo nelle case delle persone. Ci vogliono diversi punti di vista per rendersi conto della situazione concreta di chi è nel disagio.
Si direbbe che tra gli utenti della Caritas siano in aumento le persone nella fascia d’età tra i trentacinque e quarantacinque anni. Sono persone “problematiche”, o piuttosto provengono da storie “normali” e sono state travolte dalla crisi?
Ci sono tutti e due tipi di persone. Ci sono persone “normali”, che avendo perso il lavoro non riescono a reinserirsi. Quindi tastano le varie situazioni anche per poter ricercare una occupazione. Non a caso la Caritas ha anche un piccolo sportello del lavoro. Di solito, con un sostegno, un accompagnamento, queste persone riescono a risolvere il loro problema. Però ci sono anche persone che hanno una sorprendente capacità di sapersi adattare. Apparentemente si trovano a proprio agio in quasi ogni situazione. Con questo atteggiamento costituiscono la problematica più grave perché molte di loro sembrano destinate a vivere perennemente dell’aiuto della Caritas. E questo a dispetto di una “filosofia” della Caritas che dice: «non ti posso sostenere sempre. In un momento difficile della tua vita mi ti metto accanto e cerco di ridarti una spinta, in modo che tu possa andare avanti con le tue forze». Qui gioca un ruolo forte la capacità delle persone di sapersi strutturare, di saper ricercare nuove possibilità. Quando questa capacità manca, finiscono con il gravitare sempre intorno al mondo Caritas. In questo risuona quello che diceva Gesù: «i poveri li avrete sempre fra voi». Ci sono persone che se non vengono aiutate vivono senza mangiare. Lascia sgomenti, ma alcuni se hanno mangiano – anzi stramangiano – se non hanno si contentano di poco, di un bicchiere di latte al giorno, e tirano avanti comunque. Questo atteggiamento è accettabile quando sono individui soli. Ma diviene immediatamente problematico quando parliamo di famiglie, quando ci sono figli da dover sfamare, da dover vestire, ai quali dare anche assistenza medica e medicine. Allora si tratta di rimboccarsi le maniche e dare veramente un aiuto sostanzioso, anche per guidare queste persone.
Foto di Massimo Renzi