Pietrantoni (Cgil): «ci vogliono azioni collettive»

Tonino Pietrantoni

Un fatto di cronaca nei giorni scorsi ha scosso l’Italia. La tragedia è accaduta a Civitanova Marche: lui, 62 anni, era esodato. Lei, 68, prendeva 400-500 euro di pensione. Non avendo più i soldi per l’affitto, decidono di togliersi la vita. A poche ore dalla morte della coppia anche il fratello di lei la fa finita.

«Ancora morti per il lavoro (che non c’è più). Moglie, Marito, fratello. Esprimiamo dolore, cordoglio, rabbia, delusione. E vergogna. Sì, vergogna per tutti i responsabili di questa situazione (perché ci sono i responsabili)». Sono le parole con cui Tonino Pietrantoni, segretario generale della CGIL di Rieti, ha commentato la vicenda, confessando di provare «amarezza per non riuscire a rappresentare una speranza, anche se dalla mattina alla sera facciamo il massimo. Perdono per la nostra insufficienza».

Segretario, sembra la presa d’atto di una sconfitta.

È una sconfitta, per tutti. È il dramma di un Paese in grandissima difficoltà. Anche l’assistenza e gli ammortizzatori sociali sono ormai alle corde. C’è il concreto pericolo che a giugno la cassa integrazione finisca al collasso. Le istituzioni non sembrano capaci di sostenere chi perde o non trova lavoro. Le persone si sentono sole, abbandonate, e cedono alla disperazione. Paiono quasi punirsi per una colpa non loro.

Nel tuo sfogo alludi ai responsabili. Chi sono?

Quanti hanno contribuito alle scelte che determinano questa situazione. Penso ai gruppi di potere e ai grandi interessi economici. Accuso quelli che hanno negato la crisi e chi crede che l’Italia possa vivere di solo turismo, senza manifattura. Me la prendo con chi ha disperso parti importantissime dei nostri saperi, della nostra ricerca, della nostra produzione d’eccellenza. Mi fa rabbia la malafede di tanti discorsi a difesa di un sistema che di fatto ci strangola.

Però dalle tue parole traspare anche una autocritica, un guardare alle mancanze del sindacato…

Sì, è vero. Dovremmo essere in grado di elaborare delle risposte di sistema. Purtroppo, invece, troppo spesso non riusciamo a superare il successo di bandierina. Magari otteniamo risultati sui problemi individuali, incassiamo qualche successo nelle vertenze, ma fatichiamo a condurre il nostro intervento su un orizzonte complessivo. Il sindacato dovrebbe guardare cosa accomuna le persone, leggere i singoli bisogni in funzione di azioni collettive. Solo questo, sia livello nazionale che locale, permetterebbe di risolvere alla radice i problemi.

A livello locale?

Certo. Gli enti locali hanno un ruolo importantissimo, ecco perché, ad un anno dalle elezioni, vorrei poter fare il “punto” delle politiche con il Comune di Rieti. Non è tempo di restringere il lavoro, di abbassare i servizi, di tagliare e risparmiare sulle persone e sulle famiglie. Va bene la lotta allo spreco, alla corruzione, all’inefficienza, ma non dimentichiamoci che siamo uno dei Comuni con la più alta imposizione tributaria, a carico dei soliti noti. Inoltre non ci dovremmo permettere di “respingere” chi investe o chi vorrebbe investire a Rieti. Abbiamo un rappresentanza in Regione e in Parlamento: invece di sminuirla la dobbiamo rafforzare e sostenere. La capitale d’Italia deve essere il nostro punto di sviluppo, altre ipotesi nel Lazio ci danneggerebbero. Problemi di ordine generale non mancano. Ma forse siamo stati disabituati a percepirli tali. Forse ci siamo lasciati convincere che esistono solo problemi individuali, anche all’interno di piccole comunità come la nostra. Invece i cosiddetti beni comuni sarebbero tutti da trattare in modo collettivo: penso al diritto allo studio, ai servizi sociali, all’assistenza familiare e ai trasporti, ma anche alle questioni dello sviluppo del territorio, sia economico che urbanistico.

Per questo guardando ai suicidi di Civitanova Marche hai lanciato un appello «a sentirci, ad organizzarci, a stare insieme»?

Sono convinto che l’unica risposta rimanga la ricerca dell’unità. La dobbiamo riconquistare innanzitutto come sindacato. Oggi manca nonostante ognuno di noi faccia il massimo di fronte ad ogni caso singolo, al cittadino, ad ogni vertenza. Occorre vincere il torpore dell’azione quotidiana, superare le risposte burocratiche.

Ma per fare azioni concrete ci vogliono le risorse.

Non crediamo a chi dice che mancano. Le cose vanno viste per quello che sono. È vero che ci si uccide per la mancanza di lavoro, ma cos’è la disoccupazione se non un insieme di risorse inespresse, di forza lavoro sprecata, di esistenze umiliate? Ecco un tema da porre sul piano collettivo: una concreta, reale, motivata redistribuzione della ricchezza. Darebbe modo di riscattare il potenziale inespresso della nostra nazione. Darebbe il pane… a chi ha i denti. Ed è un discorso che vale tanto in generale quanto per la nostra città.

Invece si direbbe che le politiche condotte finora abbiano modellato rapporti sociali da terzo mondo.

Beh, il risultato delle politiche degli ultimi anni è stato un aumento di distanza tra i super-ricchi e tutti gli altri. Ma non solo: hanno anche prodotto un incremento della povertà vera e propria. Io credo che questo processo sia stato condotto consapevolmente. Oggi assistiamo ad una lotta di classe al contrario. Le élite fanno ogni sforzo per ridurre l’autonomia e l’indipendenza della classe media. Anzi, oggi viene messa in discussione la sua stessa esistenza. Guardiamo al mondo del lavoro: certe rotture, certe prepotenze, sono funzionali da un punto di vista ideologico più che pratico. Quello che accade in Fiat è emblematico. La pace sociale in azienda aumenta la produttività. Se si vuole lo scontro è perché si cerca un ritorno su aspetti diversi da quelli della produzione.

Possiamo dire che oggi i lavoratori si sentono truffati? Pensavano di aver conquistato una propria centralità, di aver consolidato un patto sociale. Hanno creduto che lavorando sodo avrebbero ottenuto una vita sicura ed una pensione. Ad un tratto tutto questo ha smesso di sembrare vero.

È così. In fondo non ci si uccide perché non si trova o ritrova un lavoro, ma perché dal contesto sociale la persona non riesce più ad ottenere risposte per sé e per la propria famiglia. Ci si sente soli e abbandonati dalle istituzioni. Per questo è necessario lavorare alla costruzione di nuove forme di socialità.

Sembra una conquista difficile. Oggi manca persino l’unità sindacale, come si può pensare ad un nuovo patto sociale?

Dobbiamo tenere presente che anche sulle scelte dei sindacati ha influito una componente ideologica. La divisione è stata in qualche modo introdotta dall’alto, attraverso un discorso separato da quello propriamente sindacale. In una certa misura le varie sigle si sono lasciate convincere a mediare scelte sbagliate e interessi diversi da quelli dei lavoratori. Il risultato è la frattura di oggi.

Di certo il sindacato è esposto alla critica di forze esterne, i cui interessi sono in competizione o in opposizione a quelli dei lavoratori. Ma non c’è anche un dissenso della base?

È una realtà complessa. In tanti si sono convinti che il sindacato sia una sorta di strumento di promozione sociale, un servizio che non deve essere mischiato con la politica. Ma non è così: l’azione sindacale non può che avere conseguenze politiche. Chi vuole l’ambito del sindacato ridotto alla sola funzione patronale sbaglia. E sbaglia pure chi crede che i nostri iscritti siano solo pensionati. Non è affatto vero. I numeri dicono il contrario. La Fiom, ad esempio, ha più iscritti a Rieti oggi che non nel periodo d’oro del nucleo industriale.

Però c’è chi sostiene che negli ultimi anni i sindacati si sono dedicati a battaglie di retroguardia, lasciandosi sottrarre le conquiste più importanti.

Ci sono stati anni in cui alcune tematiche hanno ottenuto troppe concessioni. Ad esempio, sulla flessibilità, velocemente degenerata in un radicale e diffuso precariato. Certa ideologia, dicevamo, è passata anche dentro il sindacato. Ma bisogna pure ammettere che questo è stato sottoposto ad enormi pressioni. Ci sono stati momenti in cui è stato accusato di protestare troppo, o magari di rivendicare privilegi di un passato perduto. Sono tutte cose che hanno avuto un peso nelle scelte. Qualche volta il sindacato ha subito, non sempre è stato in grado di opporsi.

Il sindacato è sotto attacco da tutti i fronti: dalla politica, dalla società, dalle aziende. Talvolta anche dai lavoratori. Perché?

In parte è attaccato perché non riesce a dare tutte le risposte. I bisogni sono diventati enormi e non sempre il sindacato è all’altezza. Ma c’è dell’altro. Con il dovuto rispetto e i necessari distinguo, il sindacato si trova a subire gli stessi attacchi che vengono portati alla Chiesa. Entrambi vengono criticati perché non intendono cedere alla prepotenza di chi vuole affermare solo il proprio privilegio. Entrambi criticano l’attuale sistema economico senza nascondersi. Chiesa e sindacato sono in prima linea, hanno una enorme visibilità. Parroci e parrocchie sono dappertutto. Lo stesso è per il sindacato. È un bersaglio facile, più esposto alla critica, ad esempio, dei partiti. In fondo i sindacalisti sono ovunque: in città, nei paesi, nelle fabbriche. Delle sezioni di partito, invece, ormai non c’è più nemmeno l’ombra.