E’ assolutamente necessario, in questa fase delicatissima, riflettere sulla condizione di fondo del nostro Paese dal punto di vista economico-sociale. Scopriremo così i ritardi che oggi appaiono incolmabili e che richiederebbero una diversa coesione politica, istituzionale e sociale. Per non tradire le stesse domande di futuro che il voto referendario ha sostanzialmente posto alle classi dirigenti e al ceto politico.
C’è un aspetto della vicenda referendaria che può apparire momentaneamente secondario, vista l’importanza centrale del risultato che ha indotto il presidente del Consiglio Matteo Renzi a rassegnare le dimissioni. E questo aspetto riguarda non il destino “politico”, che è tutto da costruire, ma quello economico e sociale del nostro Paese. Come ai tempi del referendum inglese sul “remain” o sull’ “exit” dall’Unione Europea; e, a maggior ragione, come poco più di un mese fa con il voto presidenziale negli Usa, che ha visto la vittoria di Trump, anche in Italia abbiamo sperimentato soprattutto nelle ultime settimane una ridda di previsioni, analisi, scenari futuri su ciò che sarebbe successo in caso di vittoria del “si”, piuttosto che del “no”. Ora che il risultato è acquisito (“no” al 59,11% e “sì” al 40,89%) forse è bene non indulgere in considerazioni su quanto tali previsioni siano state accurate, soprattutto in rapporto alle conseguenze economiche e finanziarie spesso utilizzate come una minaccia di catastrofi: quali il crollo delle banche, fallimento del Monte Paschi di Siena, innalzamento dello “spread” dei titoli di stato e grave crisi delle finanze pubbliche. Il punto su cui vorremmo attirare l’attenzione è invece un altro:
un evento così forte e anche, in un certo senso, “traumatico” come l’uscita di scena repentina di Matteo Renzi, dopo poco più di 1.000 giorni di governo, dovrebbe far riflettere sulla condizione di fondo del nostro Paese dal punto di vista economico-sociale.
I fattori di debolezza del nostro Paese. Gli ingredienti della nostra congiuntura sono noti a tutti: disoccupazione attorno all’11%, un po’ rientrata dopo il varo del Jobs Act con le sue oltre 600mila assunzioni: gli oppositori a questa riforma parlano però di trasformazione di contratti precari in assunzioni a tempo indeterminato con tutele crescenti, quindi non tutti nuovi posti di lavoro. La nostra produzione industriale e dei servizi risulta piuttosto “piatta”, con un tasso di produttività tra i più bassi tra i paesi industriali avanzati: il calcolo – si dice – è facile, dividendo il Pil generale di industria e servizi per il numero degli addetti. Nel confronto con altri paesi simili al nostro (Usa, Germania, Regno Unito ecc.) si scopre che la nostra produttività, in effetti, è distaccata di molte lunghezze. E poi abbiamo un tasso di innovazione contenuto; un numero di startup (società tecnologiche e innovative in settori quali le energie green, i nanomateriali, il cloud, ecc.) modesto; registriamo una capitalizzazione bassa delle aziende del Paese, oltre il 90 per cento delle quali di proprietà familiare o di società di capitali con due o tre soci al massimo e un basso investimento finanziario di base. Per non parlare poi della crisi delle banche, che permane e non ha come causa soltanto il peso di crediti inesigibili (i famosi “non performing loans” Npl) che ammontano a oltre 190 miliardi di euro. Uno dei nodi che frenano i nostri istituti di credito è infatti l’elevato numero di addetti (300mila) rispetto a una redditività che decresce da anni e che è precipitata dopo l’avvio del “quantitative easing”, il Qe del presidente della Bce Mario Draghi, che ha fatto crollare gli utili delle banche a livelli insopportabili.
Su tutto questo si innesta poi il fattore della povertà dilagante
(come attestano varie indagini e studi, tra cui Istat, Caritas, Censis, Eurispes ecc.): i quasi 6 milioni di persone che vivono alle soglie della povertà e i 10 milioni di italiani che comunque sono al di sotto o rasentano il reddito minimo di sussistenza danno un quadro dell’Italia nel mondo di una ex-grande potenza industriale che è alle prese con una serie di sfide di portata epocale.
Dalle divergenze politiche alle convergenze sul “sociale”. Per questo il fattore referendum, il cambio di governo che si profila, le novità attese per una legge elettorale che superi lo stallo in cui ci troviamo da anni, vanno chiaramente collegati a questo quadro economico e sociale. Ne deriva – per tutti coloro che vogliono davvero il “bene” dell’Italia –
uno sforzo di convergenza verso politiche attive del lavoro e della innovazione; un richiamo alla solidarietà sociale ed umana che, partendo dai bisogni primari dei poveri tra di noi, non chiuda comunque le porte ai poveri che arrivano dall’Africa sulle nostre coste coi barconi.
E – fattore non trascurabile – servirebbe convergenza anche su altri due fattori basilari: le politiche del lavoro a favore dei giovani e delle famiglie. Nel primo caso perché i nostri ragazzi non siano costretti ad andare all’estero a lavorare, ma possano trovare contratti di lavoro innovativi ed elastici anche da noi. E perché le famiglie, specie le giovani coppie, non debbano vedere frustrato il loro desiderio di figli perché non ci sono stipendi sicuri, prospettive di vita stabili, aiuti adeguati alle madri e ai bambini. Queste istanze appaiono altrettanto importanti a quella centrale della “governabilità”, che al momento sembra attirare (e giustamente) l’attenzione dei commentatori, dopo il risultato del referendum che ha cambiato il destino dell’Italia. Se si saprà registrare questa convergenza, tra forze politiche pur così diverse, attorno a politiche del lavoro, dell’occupazione, dell’innovazione e della famiglia, l’Italia potrà trarre da questo evento referendario un nuovo slancio. Vorrà dire che la politica avrà compreso che il suo compito non è auto-referenziale, ma primariamente sociale e rivolto al bene della gente.