Il poeta che non sa parlare approda al Salone del libro di Torino. Ma prima, stamattina alle 11 (anche in diretta streaming), torna all’Aula Magna dell’Università Suor Orsola Benincasa, nella sua Napoli, dov’era già stato 14 anni fa. Allora la lezione di Nino D’Angelo fu sulla “musica come strumento di recupero sociale”, oggi interverrà a una giornata di studi su “Pedagogia e linguaggio musicale nella società complessa”. E di società complessa se ne intende, l’ex caschetto biondo che vendeva gelati alla stazione centrale per aiutare i genitori e cinque fratelli a sbarcare il lunario. Lui primogenito, ragazzino subito grande per necessità, cresciuto a pane e canzone, poeta che non sapeva parlare, come gli diceva la sua maestra. Quella definizione è ora il titolo del suo nuovo triplo progetto artistico, Il poeta che non sa parlare: un album, un libro e un tour che partirà il 3 marzo 2022 dal Teatro Massimo di Pescara. Venerdì alle ore 14 intanto Nino sarà alla sala Oro del Salone del libro con la scrittrice Teresa Ciabatti per presentare il suo libro autobiografico ricco di racconti e di poesie (edito da Baldini+ Castoldi, in uscita domani) che vanta la prefazione dello scrittore Nicola Lagioia che del Salone torinese è direttore. Contemporaneamente tocca al bellissimo nuovo album world-pop (con gli arrangiamenti curati da Nuccio Tortora) vedere la luce: nove canzoni inedite e una cover del suo brano del 2012 Ammore è dà con otto cantanti napoletani ad affiancarlo. Ad aprire l’album la voce recitante di Toni Servillo (gli altri ospiti del disco sono James Senese e Rocco Hunt) a introdurre Pane e canzone; a chiuderlo un omaggio a Maradona, Campiò.
D’Angelo, cos’ha rappresentato Diego per Napoli? Lui solo contro tutti quanti…
Sì, così dico nella canzone. Anzi, non è nemmeno una canzone, ma una dedica. Non tanto per la gente, ma proprio per Diego che ha rappresentato la vittoria dei più deboli e ha dato voce ai poveri che con lui sono diventati ricchi. Ha dimostrato che un riscatto è possibile. Poi purtroppo si è messo di mezzo il diavolo trascinandolo su una cattiva strada che l’ha tra- sformato in una persona malata. Tutti gli errori fatti da un certo momento in poi sono quelli di un malato e per questo credo che sia da perdonare. Nella vita gli incontri sono spesso decisivi. Come il mio.
Quale fu?
Ne parlo anche nel libro. A 17 anni ebbi la fortuna di frequentare un’associazione cattolica a Casoria, dove vivevo dopo l’infanzia a San Pietro a Petierno. Lì incontrai un grande sacerdote, padre Mauro Piscopo, che mi ha preso dalla strada e mi ha fatto camminare. Aveva capito la mia vocazione musicale e mi coinvolgeva in tante iniziative. Io sono un miracolo vivente di padre Piscopo, è stato un prete meraviglioso per tutti noi, specie per quelli nati in famiglie povere come la mia dove nessuno ci poteva insegnare granché e si campava di poco. Ed è lì che ho imparato ad avere fede. Io di Gesù sono un tifoso, quando leggo il Vangelo mi commuovo.
Lo canta anche in una delle nuove canzoni…
“Cercammo a Dio n’ato Gesù, ca ce fa astregnere”, così dico in Voglio parlà sulo d’ammore. Un brano quasi politico, in cui me la prendo con questa società in cui non ci si vuole più bene, si tengono gli occhi bassi, con una politica strafottente, chiusa in una perenne campagna elettorale. Invece io voglio parlare e vivere solo d’amore, perché solo di questo c’è davvero bisogno. È l’insegnamento di Gesù, ma che noi non ascoltiamo. E non sappiamo godere del suo dono più bello, che io ho capito. Sa qual è?
Forse sì, ma per lei qual è?
Il desiderio. Che abbiamo perduto. Per questo oggi c’è tanta infelicità e disperazione. Quando ne parlo con qualche amico mi sento dare del pazzo. Invece è proprio il desiderio la strada per arrivare alla felicità, nel senso di serenità. E quando desideri qualcosa che poi si avvera, la gioia è ancora più grande.
Detto da chi ha vissuto nella povertà…
Nella vita pratica io penso, per esempio, che ai nostri figli non dobbiamo dare tutto. Io e quelli della mia età (D’Angelo è nato nel 1957, è sposato e ha due figli, ndr) siamo una generazione che ha fallito, abbiamo dato troppo, sbagliando tutto. Se si vive dando soddisfazione a ogni minimo bisogno la gioia si riduce sempre più e perde gusto e significato. E così si cade in depressione perché non si ha niente da desiderare per davvero. In questo senso il Covid ci ha almeno fatto sorgere un desiderio: la normalità.
È stato durante il lockdown che ha scritto album e libro?
No, ero troppo angosciato. L’anno scorso non riuscivo a scrivere niente, ero travolto dall’ossessione di cosa sarebbe successo. Poi mi sono sbloccato, ma per il libro ho anche in parte ripreso e rielaborato alcuni avvenimenti importanti che non potevo tralasciare, già accennati nei precedenti libri.
Perché con la sua storia piace così tanto anche agli intellettuali, da Goffredo Fofi che la sdoganò a Lagioia che ha scritto ora la prefazione?
È vero, io che non so parlare sono amato dagli uomini di cultura. Forse piace il mio non essermi arreso e l’essere uscito onestamente da situazioni difficili, sopravvivere e affermarmi. Una cosa importante ho comunque fatto: con la mia musica e la mia arte sono stato vicino alle persone sole. Nella vita ho capito quanto il dolore possa anche aiutare a migliorarsi. Ma ho avuto una forza in più.
Quale?
La comunità. Io sono nato in un palazzo con un grande portone esterno e dentro c’erano le varie case. Le signore del palazzo erano tutte mamme mie. Quella era la comunità, ma oggi è venuta a mancare. Hanno costruito case popolari e blocchi dove non si cresce. Quartieri anonimi che sono il terreno della camorra dove le persone diventano pedine. Dov’è la cultura per far crescere le persone? Non è vero che con la cultura non si mangia.
Lei pian piano la cultura se l’è costruita…
Io sono cresciuto a pane e canzone, come canto nel disco. Non ho una vera cultura, ma nella mia carriera conoscendo persone colte ho saputo ascoltare. La cultura è fondamentale perché non ci sono persone di serie A e di serie B. Lo Stato dovrebbe garantire a tutti il diritto alla cultura, ma la scuola dell’obbligo non basta. L’educazione civica dovrebbe essere la prima materia, perché la vera cultura è la cittadinanza. Sentirsi cittadini, averne la dignità.
da avvenire.it