Nel deserto di Detroit semi di speranza

La città simbolo dell’industria automobilistica Usa è anche il primo caso di bancarotta di una metropoli americana. In questo contesto continua a operare la non-profit cattolica “Focus Hope”: dalla fondazione, nel 1967, ha addestrato 11mila persone, delle quali 2.500 nell’uso di macchine utensili.

Detroit dichiara fallimento: è la notizia che hanno rilanciato tutti i media del mondo. Ma cosa c’è dietro? Lo spaventoso debito della città ammonta a 18 miliardi e mezzo di dollari; è il primo caso di bancarotta di una metropoli americana. Ma il declino della città simbolo dell’industria automobilistica Usa viene da lontano. Dalle tensioni razziali latenti negli anni ‘50 e poi scoppiate nei tardi anni ‘60, in particolare nel 1967, durante cinque giorni di scontri in cui persero la vita 43 persone: 33 neri e 10 bianchi. Dopo quei fatti la città si svuotò. E Detroit si reggeva in piedi grazie alle tasse sulle proprietà immobiliari e sulle vendite: andandosene i cittadini, il Comune ha visto sparire le entrate, e si è avvitato nella spirale del debito. Parallela a questa storia deprimente ce n’è però un’altra, che racconta della tenacia di un prete di Detroit e di tanti lavoratori che hanno avuto il coraggio di scommettere su se stessi per salvare le proprie famiglie. È da vicende come questa che oggi Detroit tenta di ripartire.

L’iniziativa di un prete.

Fondata proprio a Detroit da un sacerdote cattolico, William Cunningham, dopo le rivolte del 1967, l’organizzazione cattolica senza scopo di lucro “Focus Hope” (obiettivo speranza) si occupava inizialmente di combattere le discriminazioni razziali e la denutrizione. Nel 1981 ha cominciato a offrire un corso per meccanici. Insegnava a usare la fresa, il tornio e altre macchine utensili per consentire a giovani afroamericani di ottenere un dignitoso posto di lavoro in fabbrica. Il che, di fatto, voleva dire entrare a far parte della classe media. A partire dal 1999 “Focus Hope” offre anche una serie di corsi in software per il design (AutoCad) e per la formazione di infermieri. Dalla fondazione, la non-profit cattolica ha addestrato 11mila persone, delle quali 2.500 nell’uso di macchine utensili. È questo uno dei training per disoccupati di maggior successo negli Stati Uniti e un modello per molti altri in un momento in cui la città ha davvero bisogno di un rilancio.

Horne e gli altri.

Per farsi un’idea dell’impatto di “Focus Hope” a Detroit basta pensare alla storia di David Horne. Dopo cinque anni in galera per spaccio, nel 2010 è uscito e voleva cominciare una nuova vita. Si è subito impegnato a cercare un lavoro, ma il mercato del Michigan era asfittico. Spulciava annunci di lavoro online, girava le strade della città bussando alle porte di bar e McDonald’s, lasciava il curriculum, ma non otteneva neppure un impiego come lavapiatti. Poi David si è rivolto a “Focus Hope” ed è stato inserito in un corso per meccanici con una ventina di studenti. La classe era formata per la stragrande maggioranza da afroamericani come lui, divisa principalmente tra un gruppo di cinquantenni che hanno perso il posto in stabilimento per mancanza di competenze informatiche e giovani disoccupati con precedenti penali e iter scolastici da dimenticare. In breve tempo, Horne si è rimesso in carreggiata. Una certa intuitività per l’algebra e la trigonometria, uniti agli aiuti della scuola che gli ha offerto tutto un pacchetto di benefit, gli hanno consentito di concludere il training e di diplomarsi. È risultato l’allievo migliore della classe. Tre mesi dopo aveva ottenuto un impiego come operatore su macchina utensile presso la “Tranor Industries”, piccola azienda dell’indotto automobilistico di Detroit. “La cosa più bella di avere un lavoro è poter dare un bacio a tua moglie prima di uscire di casa al mattino e dirle: ci vediamo stasera”, dice David Horne al Sir.

Cittadini invisibili.

Passeggiando per Detroit storie come quella di Horne riscaldano il cuore. Il paesaggio urbano, però, non suscita altrettanta ispirazione. La “MotorCity” appare come un deserto di cemento punteggiato di aree transennate dove nessuno ha voglia di costruire. In giro, per isolati e isolati, non si vede nessuno. Ci si chiede come si sia giunti a questo mostruoso declino. Per Thomas J. Sugrue, professore di Storia e Sociologia all’Università della Pennsylvania e autore di libri e saggi sulla storia di Detroit, tra cui “The Origin of the Urban Crisis: Race and Inequality in Postwar Detroit”, “si tratta di un mix di razzismo e cattiva gestione finanziaria”.

Segregazione e finanze.

“A cominciare dagli anni ’50 – spiega Sugrue – i bianchi si sono trasferiti nell’hinterland, e con loro si sono spostati anche i loro soldi. Così Detroit città ha perso gran parte dei proventi delle tasse. Senza soldi in cassa è difficile ristrutturare scuole, strade, ponti”. Secondo Sugrue l’altro elemento da considerare è che a partire dagli anni ’80 il governo federale ha tagliato di netto i fondi alle città. Le spese per le metropoli sono passate dal 12% al 3%. “Per cui – continua Sugrue – città come Detroit, che già dovevano far fronte alla diminuzione delle entrate delle tasse perché la popolazione diminuiva si sono trovate in gravissima difficoltà. E invece di prendere decisioni dolorose per snellire il numero dei loro dipendenti hanno continuato a operare come se nulla fosse, sulla base del tornaconto elettorale di breve termine”.