Nei Paesi arabi cristiani dalla fede forte

Camillo Ballin è vicario apostolico dell’Arabia del Nord (Bahrain, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita). Guida oltre 2 milioni e 300mila cattolici, quasi tutti asiatici. Pochissimi, infatti, sono i cristiani nativi. Il ricordo del defunto re Abdullah e il punto sulle relazioni con gli Stati. La grande partecipazione dei fedeli e la perenne carenza di luoghi di culto, anche se ci sono degli spiragli.

“Un grande re, un uomo saggio che ha cercato con molto equilibrio di aprire il suo regno verso orizzonti più universali. È stato il primo re saudita che ha fatto visita al Papa (Benedetto XVI, nel 2007) e che ha aperto un Centro di dialogo interreligioso a Vienna”. Comincia così, con un ricordo di Abdullah, sesto re saudita, morto lo scorso 24 gennaio, la sua intervista al Sir il vicario apostolico dell’Arabia del Nord (Bahrain, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita), monsignor Camillo Ballin. Da 45 anni nei Paesi arabi, il vicario guida oltre 2 milioni e 300mila cattolici, quasi tutti di origine asiatica. Il dopo-Abdullah presenta “sfide non facili”: “Equilibrare la necessità di continuare l’apertura verso l’universalità e nello stesso tempo tenere conto della stragrande maggioranza della popolazione che vuole continuare nel sistema di rigida conservazione dell’interpretazione wahhabita dell’Islam e delle tradizioni locali. Se l’Arabia Saudita viene meno alla sua nota applicazione del Corano perderà molto del suo prestigio presso gli altri Paesi arabi”.

Nel suo Vicariato lavorano 2 milioni e 300 mila cattolici. Chi sono e come vivono?

“Non ci sono cristiani nativi, eccetto pochissime eccezioni in Kuwait e altri naturalizzati in Bahrain, come è il mio caso (iI re del Bahrein gli ha concesso la cittadinanza, ndr) La grandissima parte dei cristiani nei Paesi del Golfo è di origine asiatica: Filippine India, Bangladesh, Sri-Lanka, Pakistan, Nepal. Gli europei sono una piccolissima minoranza e, avendo di solito, compiti piuttosto elevati, non brillano per la loro testimonianza cristiana. Mentre gli asiatici, hanno in genere un impiego molto più basso e quindi sono più vicini al Signore”.

Quali sono le principali sfide che le comunità cristiane devono affrontare?

“Le sfide sono date dalla situazione concreta dei fedeli e dei Paesi che li ospitano. Essi provengono da oltre 100 nazionalità e da tutti i riti, Latino e Orientali. È desiderio di ogni gruppo essere da solo, distinto e separato dagli altri. In questo caso avremmo molte Chiese cattoliche vicine l’una all’altra ma non ‘una’ Chiesa cattolica. Questo non vuol dire che vogliamo imporre il rito latino a tutti, uniformarli al nostro modo di vedere e di fare. Nel mio Vicariato celebriamo in 5 riti (latino, siro-malabar, siro-malankara, maronita e copto) e in 13 lingue. La Liturgia di ogni rito è rispettata. Ma è difficile mettere insieme comunità così diverse per lingua, cultura e provenienza. Alcuni dei Paesi che ospitano i nostri fedeli ci obbligano a delle restrizioni di spazio che non sono compatibili con il grande numero di fedeli. Abbiamo bisogno di più chiese, ma questo, in alcuni Paesi, non viene assolutamente dato”.

Come vivono la loro fede cristiana?

“Con convinzione e costanza. In ogni chiesa abbiamo, oltre il tabernacolo, una grotta della Madonna e una cappella per l’adorazione diurna continua. Tutti e tre questi locali sono sempre frequentati dai fedeli, durante tutto il giorno. È la preghiera costante che ci tiene in piedi. Abbiamo messe gremitissime. Talvolta dobbiamo celebrare nel cortile perché abbiamo oltre 6.000 fedeli che vi partecipano. Ho calcolato che la percentuale di frequenza dei nostri fedeli è intorno al 30-35%. È una percentuale molto alta rispetto all’Europa ma dico sempre ai miei preti di non lasciarci prendere dalle chiese piene. Dobbiamo considerare che il 65 o 70% non viene in chiesa! E sono molto più della metà. È vero che la situazione di lavoro di quasi tutti i nostri fedeli è molto difficile e, quand’anche lo volessero, non possono venire in chiesa. Tuttavia, non dobbiamo perdere lo zelo e fermarci a quelli che frequentano”.

Prima parlava del bisogno di più luoghi di culto. In questi ultimi anni alcune capitali del Golfo hanno dato permessi per costruire chiese: si tratta di segnali di apertura?

“Il Qatar ha dato terreni a tutte le Chiese. Il Bahrain mi ha dato il terreno per costruirvi la cattedrale e l’edificio annesso. Sono ottimi segni di speranza e di reciproca intesa. Il re del Bahrain segue con molto interesse gli sviluppi del progetto della cattedrale. È stato il primo capo arabo che ha reso visita ufficiale a Papa Francesco. Altri Paesi dovrebbero seguire l’esempio del Qatar e del Bahrain”.

Qual è lo stato dell’arte del dialogo interreligioso in questa regione?

“Ci sono delle iniziative governative. Il Qatar celebra il dialogo interreligioso ogni anno e invita esponenti delle cosiddette “religioni rivelate” (ebrei, cristiani e musulmani). Il Bahrain ha ripreso nel maggio 2014 la celebrazione di Conferenze di “dialogo tra le civiltà”. Il Kuwait non ha un’organizzazione ufficiale del dialogo interreligioso”.

La nascita dello Stato islamico (Is), e le guerre in Siria e Iraq hanno qualche influenza sulla vita dei cristiani nei Paesi del Golfo?

“Non c’è un influsso diretto di Is sui cristiani come tali nel Golfo. Tuttavia, l’Is crea destabilizzazione nella regione. Parecchie compagnie chiudono o sono restie a venire. Questo influisce sulla vita spesso molto incerta dei nostri fedeli. Qualche Governo, poi, è influenzato dall’Is e questo provoca atteggiamenti di chiusura riguardo alla Chiesa”.

Il Re del Bahrain si è dichiarato disposto ad aiutare 200 famiglie cristiane di Mosul…

“Il re era disposto ad accogliere 200 famiglie cristiane di Mosul. È stato un atteggiamento di grande apertura e di pace. Tuttavia, il Patriarca caldeo, Sako, ha preferito che le famiglie restassero in Iraq e non si trasferissero in Bahrain per poter un giorno ritornare nelle loro case e proprietà”.