Musica

Muti: «Io, verso gli 80 anni inascoltato dai politici»

Il maestro: «Mi spiace di non avere contribuito di più alla diffusione della musica in Italia dove c’è sempre stato il disinteresse di ogni governo». Il 10 aprile in streaming il “Requiem” da Palermo

Quando, un po’ a bassa voce, alla fine della chiacchierata – dove lui come sempre è stato un fiume in piena di aneddoti, di pensieri profondi e di appassionato impegno civile –, quando prima di salutarlo gli fai notare che «quest’anno saranno ottanta» parte un sonoro «hanno sbagliato all’anagrafe! Non me li sento affatto». E poi, inconfondibile, la sua risata. Piena di calore. Perché Riccardo Muti è così, rigoroso sul podio, nella vita simpatico e capace di grandi gesti di affetto. «Ma molti mi vedono come una persona severa» dice il direttore d’orchestra che il 28 luglio compirà ottant’anni. «E pensare che quando ero un ragazzo vedevo gli ottantenni come vecchissimi» sorride Muti che è a Palermo, al Teatro Massimo, dove nei giorni scorsi ha diretto un concerto con l’Orchestra giovanile Cherubini (da oggi in streaming sul sito di Ravennafestival) e dove ieri, a porte chiuse, è salito sul podio di orchestra e coro del Massimo per la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi che andrà in streaming sulla sua web tv del teatro il 10 aprile. «Mancavo da cinquant’anni, mi sono sentito subito a casa» racconta il maestro al quale ieri il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha conferito la cittadinanza onoraria. Nato a Napoli nel 1941 «perché la mamma ci teneva che noi figli nascessimo nella sua città». Cresciuto a Molfetta. «Il giorno di San Nicola, nel 1948, aspettavo un giocattolo invece mi regalarono un violino ». Gli studi a Napoli e a Milano. «Dove sono arrivato un 2 novembre con la città avvolta dalla nebbia». Oggi vive a Ravenna. «Ho fatto già una dose di vaccino, prima di partire per il Giappone mi attende la seconda ».

La vittoria nel 1967 al concorso Cantelli, gli anni al Maggio fiorentino e al Teatro alla Scala, i Wiener, i Berliner, la Chicago che guida oggi, tappe di una carriera lunga più di cinquant’anni. Tempo di bilanci, maestro Muti?

Quello che mi dispiace, ora che la vita corre verso un inevitabile finale, è quello di non aver potuto contribuire in maniera ancora più decisiva alla diffusione della musica nella nostra Italia dove continuo a riscontrare un disinteresse verso le istituzioni culturali.

Si riferisce alla chiusura dei teatri?

Spagna e Russia non hanno mai chiuso le sale, noi sì. Eppure, lo dico a gran voce, il teatro è un luogo sicuro. Qui a Palermo per ilRequiem i coristi cantano ciascuno in un palchetto, senza mascherina, in tutta sicurezza. Perché non può entrare il pubblico alle stesse condizioni, uno spettatore in ogni palco e, per di più, con la mascherina? Queste prolungate chiusure sono irrispettose di ciò che la cultura rappresenta per l’Italia. Una volta tanto dovremmo cercare di essere più mediterranei e meno teutonici e di prendere meno esempio da Germania ed Austria perché l’Italia ha una storia e un patrimonio artistico più ricco di qualsiasi altra nazione al mondo.

In quest’anno di chiusure sono stati molti i suoi appelli alla politica. Inascoltati?

Con il ministro della cultura Dario Franceschini ho intavolato un dialogo, ma non basta un ministro ci vuole tutto il governo, è necessaria l’attenzione di una nazione intera, serve una classe dirigente che trovi soluzioni e occorre che le grandi industrie mettano a disposizione fondi e risorse. Da anni, di fronte al fatto che alcune regioni sono ancora senza orchestre, dico che occorre moltiplicare le formazioni musicali per dare uno sbocco ai ragazzi che studiano nei conservatori. A Palermo ho conosciuto la Kids orchestra del Massimo: sono bravissimi, ma mi chiedo quanti faranno della musica la loro professione. Chi pensa ad esempio ora alle bande che sono un vanto dell’Italia del Sud? Io sono un figlio del Sud che ha avuto la fortuna di avere grandi insegnanti e voglio invitare chi di dovere a dare uno sguardo a questo Paese per come è. E non dimentichiamo che la gloria dell’Italia è fatta dai nostri musicisti e maestranze che sono abbandonati, parlo di uomini e donne, di ragazzi e ragazze che oggi sono letteralmente alla fame.

Non ha mai pensato ad un suo impegno politico?

Quello di direttore d’orchestra è già un impegno gravoso. Senza la musica, l’arte, la cultura, la società sarebbe più bestiale. Oggi abbiamo il dovere di formare le nuove generazioni, quelle che domani guideranno il paese, facendo conoscere loro la Bellezza. Impegno che ha anche un risvolto politico.

Ha questa connotazione il suo lavoro con i ragazzi dell’orchestra Cherubini, con i quali ha da poco attraversato l’Italia da Bergamo a Palermo in una tournée nei teatri chiusi?

Sono ragazzi che meriterebbero di stare in grandi orchestre invece che essere in una situazione di indigenza e di disoccupazione. Occorre capire che la cultura non è intrattenimento e che la nostra è una missione, offrire cibo spirituale di cui, specie in questo periodo, abbiamo profondamente bisogno.

Per questo ha scelto la Messa da Requiem, una riflessione sul dolore e sulla morte?

Quando il sovrintendente Francesco Giambrone mi ha invitato a tornare al Teatro Massimo abbiamo pensato subito al Requiem verdiano, una delle pagine più straordinarie della nostra musica. Il messaggio viene da sé, il Libera me, Domine finale del soprano è il grido che si leva oggi: liberarci da questo male che ci attanaglia. Ma non solo. Qui c’è il nostro atteggiamento di fronte all’aldilà e in quella che diventa quasi una lotta con Dio c’è un urlo di sconcerto, c’è il dubbio: esisti? mi libererai? ti preoccuperai di me al quale hai dato la vita? E non può essere, come pensano in molti, una musica scritta da un ateo.

Non si contano le volte in cui ha diretto il Requiem…

Ma ogni volta capisco che questa è una pagina sempre più misteriosa e sempre più difficile da affrontare. Al Massimo l’orchestra è in platea, il coro nei palchi, lontanissimi. Sembra un film di fantascienza, se un anno fa mi avessero detto che avrei diretto in queste condizioni avrei preso tutti per pazzi. Invece l’ho fatto, prima al Regio di Torino per Così fan tutte di Mozart, ora a Palermo. E da un estremo all’altro dello Stivale, pur con temperamenti diversi che riflettono la storia di ciascuno, ho trovato musicisti che con il loro fare musica in queste condizioni non si arrendono e dicono: noi ci siamo, noi esistiamo.

da avvenire.it