La breve vita di Malaak disegnata sulla sua tunica. A Zarqa, tra i rifugiati e profughi cristiani, si rinnova il sogno di Don Orione

Nel centro “San Giuseppe” a Zarqa, religiosi orionini, con il sostegno della Conferenza episcopale italiana, accolgono e aiutano profughi iracheni e rifugiati siriani. Un andirivieni di famiglie cristiane, e non, fuggite alla mattanza di Daesh dopo l’invasione di Mosul e della Piana di Ninive. Qui attendono di avere il visto di espatrio per emigrare in Australia, Usa o Canada. Nessuno vuole ritornare in Siria e in Iraq. Nessuno vuole convertirsi all’Islam. La storia della piccola Malaak, il nome significa ‘angelo’, morta annegata su un barcone con tutta la sua famiglia mentre dalla Turchia cercava di raggiungere la Grecia. La sua breve vita disegnata sulla sua tunica, in un affresco di un profugo iracheno nella chiesa parrocchiale di “Maria Regina della Pace”. La preghiera del parroco, l’iracheno padre Hani: “nessun angelo deve più morire”

Una vita ricamata in pochi centimetri di stoffa colorata. Pochi quanto i suoi anni vissuti. Cinque. Si chiamava Malaak, il suo nome vuol dire “Angelo”, veniva da Qaraqosh, il più grande villaggio cristiano della Piana di Ninive. Fuggita, in braccio ai genitori e ai suoi tre fratelli, dai tagliagole dello Stato Islamico dopo l’invasione di Mosul (10-17 giugno 2014) e degli altri villaggi della Piana (nella notte tra il 6 e il 7 agosto 2014). A raccontare la sua storia è il religioso orionino Hani Al-Jameel, iracheno, parroco della parrocchia “Maria Regina della Pace” a Zarqa (Giordania). Anche lui di Qaraqosh. Dallo scoppio della guerra in Siria e in Iraq la chiesa, con l’attiguo centro “San Giuseppe”, è diventata un tetto per tante famiglie di profughi e rifugiati, grazie anche alla Conferenza episcopale italiana (Cei) che qui finanzia diversi progetti di solidarietà con i fondi dell’8×1000. Da qui è passata anche Malaak, prima di intraprendere l’ultimo viaggio quello che l’avrebbe dovuta condurre dalla Turchia alla Grecia, Paese che non ha mai raggiunto. Il barcone su cui si trovava con la sua famiglia, infatti, si è inabissato nelle acque del Mediterraneo. Scampata alla furia di Daesh, morta sulla via che doveva condurla alla salvezza. Lei e la sua famiglia. Nessun superstite.

La tunica di Malaak. Ora il suo volto, con i grandi occhi azzurro-verdi, incastonato in un caschetto di capelli rossicci, si trova rappresentato nel grande affresco dietro l’altare della chiesa di padre Hani, insieme a quelli di bambini di altri Paesi. “È il sogno di don Orione – spiega il parroco ad un gruppo di giornalisti della Fisc, la Federazione che riunisce i settimanali diocesani, giunti a Zarqa con il viaggio Fisc-8×1000 “Senza frontiere” – avuto dal santo quando era ventenne e ancora seminarista. Davanti al rischio di chiudere il suo oratorio a Tortona, don Orione chiese alla Madonna di non abbandonarlo e di salvare lui e i suoi giovani orfani. Quella stessa notte, la Madonna gli apparve in sogno con il manto celeste che si stendeva su tanti ragazzi di diversi colori. La protezione di Maria ieri come oggi”. Padre Hani è certo: la piccola Malaak ora riposa sotto il manto di Maria. “L’affresco è opera di un profugo iracheno di Mosul – ricorda il parroco -. Mentre lo realizzava è stato raggiunto dalla notizia che la sua richiesta di visto di espatrio per l’Australia era stata accettata. Prima di lasciare Zarqa per Sidney, ha voluto completare la sua opera ritraendo anche la piccola Malaak, dipingendone la storia sulla tunica colorata”.

Il piccolo abito mostra nel punto più basso il tempo della gioia, i girotondi con gli amici a Qaraqosh, la chiesa illuminata dal sole. Poco più sopra l’arrivo di Daesh, la croce della Chiesa divelta e i corpi delle persone uccise a terra. Una fila di fiori separa questa immagine da quella della fuga su un barcone stracolmo di profughi ed infine, all’altezza del cuore, l’immagine di un piccolo angelo che sale al cielo per abbracciare la Croce del martirio. In mano la piccola Malaak tiene una palma, la pace e il martirio in un unico simbolo”.

Un destino tragico che accomuna tanti iracheni e siriani, non solo cristiani. A Zarqa, padre Hani, con i suoi confratelli della Fondazione don Orione, cerca di dare loro assistenza e conforto. Almeno fino all’arrivo dell’agognato visto di espatrio per gli Usa, il Canada e soprattutto per l’Australia. Nessuno ha intenzione di ritornare in Iraq o in Siria. Nel centro “San Giuseppe” vige il motto “A chi bussa alla tua porta non chiedere chi sei, ma di cosa hai bisogno”.

Alla persecuzione nei confronti dei cristiani e di coloro che si oppongono ai fondamentalisti, le risposte sono due, dice con un sorriso il parroco iracheno, “la carità e la misericordia”.
Nel piazzale del centro intanto si radunano gli alunni della scuola: 580 ragazzi, dei quali solo 120 di fede cristiana. Tra questi anche giovani iracheni rifugiati. Per loro la Cei e gli orionini portano avanti un progetto di educazione e sviluppo che prevede anche laboratori di meccanica, di falegnameria e di scuola alberghiera. La cucina della scuola viene usata anche dalle 9 famiglie di profughi iracheni, ospitate nel centro. Passano il tempo ad aspettare un visto che sembra non arrivare mai. Come Majeed Al Janaf e Nisreen Zaki, marito e moglie, di Qaraqosh. Prima dell’arrivo di Daesh una vita tranquilla. “Vivevamo con il mio lavoro di riparatore di televisioni. Poi le minacce per farci convertire all’Islam.

Fuggendo via ho rinunciato a tutto, ma non alla mia fede.
Nessuno dei 150 mila cristiani fuggiti in quei giorni si è convertito. Oggi aspetto di emigrare con la mia famiglia. Spero che i miei figli possano lasciarsi dietro il ricordo tragico di Daesh e superare i problemi psicologici che purtroppo ora hanno”. Poco distante Ranna Sabah Shema, giovane madre di Mosul, annuisce. Seduta sul letto della sua piccola stanza, con in braccio il figlio, non vuole ricordare quei giorni e inveisce contro Daesh. Anche Ranna, come tutti al Centro di Zarqa, vuole partire. Padre Hani li guarda e rivela: “su tutti quelli che accogliamo chiediamo che scenda il manto celeste di Maria, come nel sogno di don Orione, affinché trovino salvezza e un futuro migliore. Nessuno più deve piangere la perdita di un Angelo”.