L’utopia interrotta

«Frontiera» traccia per i propri lettori un profilo, inevitabilmente non esaustivo, delle opere e delle idee di Olivetti. Riteniamo utile ravvivare la memoria di questa esperienza umana originale perché ricca di cultura, conoscenza e risorse. Forse dimenticata troppo in fretta, può innescare punti di vista alternativi per riflettere sulle sfide della contemporaneità.

L’improvvisa scomparsa di Adriano Olivetti all’inizio del 1960 lasciò l’Italia orfana di un progetto culturale, sociale e politico di grande complessità, in cui fabbrica e territorio erano indissolubilmente integrati in un disegno comunitario armonico.

Olivetti era un uomo dalla personalità poliedrica. Il suo particolare impegno nel campo industriale e imprenditoriale, lo portò ad occuparsi di problemi urbanistici, di architettura, di cultura, di riforme sociali e di pratica politica. Negli anni della formazione frequentò ambienti liberali e riformisti. Collaborò alle riviste «L’azione riformista» e «Tempi nuovi» ed entrò in contatto con Piero Gobetti e Carlo Rosselli.

Il padre Camillo vantava di aver fondato, nel 1908, la «prima fabbrica italiana di macchine per scrivere». Negli anni della maturità, Adriano fece dell’azienda di famiglia una multinazionale di successo, ma sopratutto un laboratorio di esperienze culturali e sociali programmaticamente estese alla partecipazione e la formazione culturale.

L’Uomo e il Lavoro


La fabbrica come luogo di elevazione materiale, culturale, sociale e spirituale

«Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione, una vocazione anche nella vita di una fabbrica?» A. Olivetti (discorso ai lavoratori per l’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli).

Olivetti aveva un modo di concepire l’industria lontano dalla sensibilità della propria epoca e sostanzialmente opposto a quello attuale. Animato com’era da un profondo senso di giustizia e da una visione complessiva dell’esistenza, vedeva la fabbrica integrata al proprio territorio, agli operai e alla loro vita.

Poco dopo il 25 aprile del 1945, nel primo discorso tenuto nel suo rientro in fabbrica dopo l’esilio politico in Svizzera, gli operai di Ivrea lo sentirono dire: «Allora, amici, vorrete domandarmi: dove va la fabbrica in questo mondo? Cosa è la fabbrica nel mondo di domani? Come possiamo contribuire col nostro sforzo e col nostro lavoro a costruire quel mondo migliore che anni terribili di desolazione, di tormenti, di disastri, di distruzione, di massacri chiedono all’intelletto e al cuore di tutti […]?»

La domanda di Olivetti non era rivolta solo alla immediata problematica della ricostruzione. Gli interessava il senso stesso del lavoro, visto come vettore di civiltà e di elevamento materiale e spirituale. L’industriale non si rassegnava all’invadente mercificazione della vita, alla logica capitalista e il consumista che invade ogni aspetto dell’esistenza. Non è difficile immaginare cosa avrebbe pensato del “finanz-capitalismo” attuale.

In un viaggio giovanile negli U.S.A. studiò da vicino il sistema della catena di montaggio. Ne adottò i principi di efficienza in Italia, ma inserendo opportuni correttivi. Rispose in questo anche alle paure del padre Camillo, che esitava ad intraprendere quella strada «perché la grande fabbrica avrebbe distrutto l’Uomo, avrebbe distrutto una possibilità di contatti umani, avrebbe portato a considerare tutto l’ingranaggio umano come un ingranaggio meccanico. Ogni uomo come un numero».

L’uomo nella concezione di Olivetti è il fine ultimo di ogni azione: produttiva, culturale o politica. Egli realizzò ad Ivrea una fabbrica «concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza». L’industria, per Adriano, «pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale, sociale del luogo ove fu chiamata ad operare».

Nel mondo di oggi pare aver vinto l’idea che il profitto sia l’unico movente dell’agire economico. Il sistema di valori comunicato dai media (dominati da chi il potere economico lo detiene) è solerte nel ribadire e persuadere la società che le cose stanno così e non possono essere diverse. Per il pensiero dominante i mezzi di produzione sono funzione del prodotto e le persone vanno oggettivate come “risorse umane”. I territori poi, lontano dall’esprimere le proprie “vocazioni” economiche, si lasciano occupare da impianti usa e getta (come gli oggetti che vi vengono prodotti). Le popolazioni affamate di posti di lavoro li accettano e invocano come una risorsa; il capitale però è sempre pronto a trasferirsi ovunque sia più profittevole produrre, senza che il dissesto sociale della chiusura delle fabbriche costituisca motivo di scandalo o ostacolo.

Le risposte che Olivetti dava alla domanda sugli scopi dell’impresa non solo erano molto diverse, ma da uomo d’azione qual’era seppe anche dimostrarne l’efficacia pratica.

L’impresa responsabile


formazione, biblioteche, assistenza, rispetto del lavoratore e del territorio

«La fabbrica vi chiede molto in termini di fatica, tempo, organizzazione della vostra famiglia, ha quindi il dovere di restituirvi quanto possibile in termini di salario, di buone condizioni di lavoro, di servizi sociali». A. Olivetti (da un discorso agli operai).

Luciano Gallino, sociologo poco allineato al sistema e cresciuto all’interno del mondo Olivetti, ha definito l’idea del lavoro di questa azienda “l’impresa responsabile”. Responsabile anche se è stata una delle prime imprese “globali”. Ma dietro le sedi commerciali di New York e agli stabilimenti in India, dietro un marchio conosciuto in tutto il mondo, non c’erano sfruttamento dei minori e condizioni di vita disumane, ma alti salari, ricerca della qualità della vita dei dipendenti, reinvestimento degli utili ed innovazione tecnologica.

La Olivetti investiva in formazione come ancora oggi non si fa. Fece scuole per meccanici in cui si insegnavano principi di economia e storia del movimento operaio. Nei suoi stabilimenti non mancavano biblioteche, centri culturali, conferenze e spettacoli largamente accessibili agli operai anche durante gli orari di lavoro. Prima tra le aziende italiane e in piena autonomia, la Olivetti pianificò e realizzò una riduzione dell’orario di lavoro che permise a tutti i dipendenti di avere il sabato libero per dedicarlo a se stessi, alla famiglia, alle passioni, al territorio.

Che contrasto con l’oggi, dove in tanti comparti e soprattutto nel commercio, si vuole lavorare e far lavorare anche nel giorno del 1 maggio! Nella Olivetti di allora c’erano strumenti e diritti che oggi faticano a farsi o perdono terreno: gli asili nido, la protezione della maternità, l’assistenza sanitaria gratuita, le case per i lavoratori gestite da un Consiglio eletto dai dipendenti in modo autonomo.

Nell’epoca della repressione antisindacale che caratterizzava, ad esempio, la FIAT di quegli anni, la Olivetti pagava stipendi più alti di quelli fissati dai contratti collettivi nazionali, e provvedeva in tantissime forme ai bisogni dei dipendenti. Adriano Olivetti aveva costruito, sviluppato, proposto, teorizzato, applicato un concetto di impresa che si assume la responsabilità del territorio, degli interventi, di chi lavora intorno ad essa. Per questo ad Ivrea non solo produsse ricchezza e diffuse cultura, ma pianificò l’impatto della produzione nel contesto ambientale. Evitò l’esodo forzato dai luoghi intorno alla fabbrica favorendo i trasporti collettivi e cercando di migliorare la qualità della vita dei piccoli paesi, affinché i giovani non li abbandonassero.

La concezione “olivettiana” dell’impresa da molti anni è stata non solo dimenticata, ma contrastata, considerata premoderna. L’unica responsabilità dell’impresa concepita oggi, è esclusivamente quella verso il gruppo degli azionisti.

E pare poco importi che questo atteggiamento non dia buoni risultati, se è vero che crisi la economica e gli scandali finanziari di questi anni si fondano in gran parte anche sulla scarsa diffusione del senso di responsabilità di molte imprese.

Qualità e innovazione


il primato autarchico della Olivetti nell’elettronica e nell’informatica

«Poiché la concorrenza, le invenzioni, i perfezionamenti non hanno limiti dovremo, sotto questo riguardo, non dar mai segni di stanchezza, alimentando di nuove forze tecniche i nostri laboratori di ricerche, i nostri centri di studi». A. Olivetti (discorso ai lavoratori per l’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli).

La Olivetti seppe intuire presto l’avvento dell’era elettronica e informatica. La sua produzione di calcolatori e computer, del tutto autonoma, era all’avanguardia e suscitava l’invidia della IBM e degli altri colossi americani. Da anni sentiamo politici e Confindustria riempirsi la bocca con il binomio «ricerca e innovazione». Tradotto in lingua corrente gli uni offrono (e gli altri chiedono) soldi, senza idee, proposte, progetti. Le imprese di oggi invocano l’aiuto dello Stato in tempo di crisi ed il libero mercato quando c’è da fare utili.

In questo scenario l’espansione della Olivetti stupisce e fa riflettere: tutti i suoi risultati furono raggiunti con le capacità di autofinanziamento della azienda stessa. La Olivetti reinvestiva gran parte degli utili sull’innovazione del prodotto e la ricerca di soluzioni nuove. Uno sforzo eroico se si pensa che il comparto elettronico della concorrenza americana prosperava grazie alle commesse statali, soprattutto militari. Ciò non di meno, nel 1985 la Olivetti era il secondo produttore al mondo di computer ed il primo produttore in Europa. Le potenzialità innovative dell’azienda, grazie anche all’esperienza acquisita nella meccanica fine, le permisero di intraprendere, (unica società in Europa), il progetto, lo sviluppo e la produzione di hard disk da installare sui propri personal computer.

La fabbrica di cultura


Le Edizioni di Comunità, la pubblicità aziendale e il design: veicoli per i valori del “sistema olivetti”

«Difendere sempre il livello artistico e l’omogeneità grafica delle nostre espressioni pubblicitarie, imporre ad ogni costo la lealtà dei nostri metodi commerciali, non fu cosa né facile né rapida». A. Olivetti (discorso ai lavoratori per l’inaugurazione dello stabilimento di Pozzuoli).

L’esperienza della Olivetti nel campo della pubblicità è di indubbio prestigio internazionale, grazie al coinvolgimento di grandi personalità, grafici e copy innanzitutto. Con le sue strategie di comunicazione mirate all’efficacia, alla qualità, alla sintesi e alla correttezza del messaggio, l’Olivetti può vantare una posizione di primaria importanza nella storia della comunicazione visiva e dell’arte in generale, se si riconosce con Marshall McLuhan che «la pubblicità è la più grande espressione artistica del XX secolo». Dovendo comunicare prodotti innovativi per concezione tecnica, design e destinazione d’uso, i pubblicitari Olivetti non potevano fare che continui salti di qualità, tenendo il passo della indomabile volontà di miglioramento produttivo, culturale, civile e umano del Presidente.

Ma il lavoro culturale alla Olivetti si spingeva più in là: oltre ad una infinità di pubblicazioni interne, la casa di Ivrea diede alle stampe con regolarità la rivista Comunità e, tramite l’omonima casa editrice, introdusse sul mercato libri di importanti autori internazionali. Furono pubblicati o passarono per le stanze delle Edizioni di Comunità personaggi come Simone Weil, Lewis Mumford, George Friedmann, Ignazio Silone e Ernesto Rossi, solo per citarne alcuni. Lo scopo era recuperare il ritardo culturale italiano nel quadro mondiale. Le Edizioni di Comunità furono attente ai temi dell’urbanistica e delle scienze sociali, della storia e dell’economia, e furono esplicitamente intese da Adriano come base culturale per il progetto complessivo della riforma in senso comunitario della Repubblica, cui tese come uomo di impresa, uomo di cultura, uomo di scienza e uomo politico, affinché lo Stato potesse rendere conto alle leggi dello spirito.