Don Giorgio Bonaccorso, monaco benedettino, docente di liturgia all’Istituto S. Giustina di Padova, fa il punto sui cambiamenti intercorsi e sui traguardi da raggiungere. “L’uomo di oggi è profondamente diverso, basti pensare all’avvento dell’era digitale. Nonostante ciò, la sfida di sempre, per la liturgia, è far entrare i nostri contemporanei nell’orizzonte della speranza…”. Bisognerebbe saper utilizzare anche le emozioni.
Cinquant’anni anni fa, un Papa ha introdotto nella storia della Chiesa una forma “straordinaria” di celebrare, nella lingua parlata dalle varie Chiese sparse nel mondo. Cinquant’anni dopo, nella stessa parrocchia romana, un altro Papa renderà grazie per questo “avvenimento”, confermando la scelta conciliare del suo predecessore e ribadendo l’importanza della riforma liturgica. Era il 7 marzo 1965 quando, in occasione dei 25 anni dalla morte di san Luigi Orione, Paolo VI presiedeva la prima Messa in italiano nella parrocchia di Ognissanti a Roma. “Si inaugura, oggi, la nuova forma della liturgia in tutte le parrocchie e chiese del mondo, per tutte le Messe seguite dal popolo”, le parole pronunciate da Papa Montini nell’omelia di un giorno che lui stesso, già allora, definì “un grande avvenimento, che si dovrà ricordare come principio di rigogliosa vita spirituale, come un impegno nuovo nel corrispondere al grande dialogo tra Dio e l’uomo”. A cinquant’anni da quella celebrazione, che segnò la traduzione concreta della riforma liturgica inaugurata dalla “Sacrosanctum concilium”, l’appuntamento con Papa Francesco è per sabato 7 marzo, alle ore 18, nella chiesa di Ognissanti in via Appia Nuova. Intanto nei giorni scorsi, sempre a Roma, al Teatro Orione, adiacente alla parrocchia dove il Papa celebrerà la Messa, si è svolto un convegno di pastorale liturgica sui 50 anni dalla prima messa in italiano, promosso dall’Opera don Orione, dal Pontificio Istituto Liturgico di Roma e dall’Ufficio liturgico del Vicariato di Roma sul tema: “Uniti nel rendimento di grazie”. Con don Giorgio Bonaccorso, monaco benedettino, docente di liturgia all’Istituto S. Giustina di Padova, abbiamo fatto il punto sui cambiamenti intercorsi in questo mezzo secolo sul piano liturgico, e sui traguardi ancora da raggiungere.
Come sono cambiate, in questi cinquant’anni, le nostre liturgie?
“L’introduzione della Messa in lingua italiana è nata dal bisogno di avvicinamento alla cultura degli uomini: si è scelto di utilizzare l’italiano al posto del latino non semplicemente perché ‘si capisce’, ma per favorire un dialogo sempre più profondo tra fede e cultura, che non si riduce mai però a una questione soltanto linguistica. Bisogna, infatti, stare molto attenti a evitare di cadere in un’illusione: il fatto che ci sia una ‘traduzione italiana’ della Messa non vuol dire che io capisco tutto, altrimenti il rito non avrebbe più senso, ma che nella celebrazione liturgica si dice tutto quello che si può dire con la propria lingua. La liturgia, in altre parole, è poesia: il linguaggio liturgico non è del tutto omologo a quello quotidiano, deve essere poetico”.
Quanto hanno influito, vnella celebrazione dei riti liturgici, i cambiamenti antropologici?
“Nella liturgia bisogna tenere insieme, pur lasciando le debite differenze, il sacro e il profano, il vissuto quotidiano e l’eccedenza del sacro. Certo l’uomo di oggi è profondamente diverso da quello di cinquant’anni fa, basti pensare all’avvento dell’era digitale. Nonostante ciò, la sfida di sempre, per la liturgia, è far entrare i nostri contemporanei nell’orizzonte della speranza, utilizzando il rito come strumento che da qualcosa è in grado di andare verso il tutto. In questo percorso, bisognerebbe saper utilizzare anche le emozioni: il rito deve essere capace di produrre, nella persona, una sorta di emozione olistica, che mi rasserena in quanto mi rimanda a un orizzonte unitario, trascendente, in grado di fornirmi un orizzonte di senso e di consentirmi di andare avanti. Questa unità, tuttavia, non è omologazione: il rito è anche interruzione della quotidianità, e in quanto tale mette in moto un circolo virtuoso tra ordinario e straordinario”.
La partecipazione attiva dei fedeli è uno dei principi-cardini della riforma liturgica. Oggi sembra essere diventata il tasto dolente, visto il calo di afflusso nelle Messe domenicali, soprattutto tra le fasce più giovani….
“In questi 50 anni la società si è profondamente individualizzata, e la partecipazione si è rivelata l’anello debole. Senza contare che oggi si sono creati nuovi centri di aggregazione, distinti dalle parrocchie e assolutamente laici, non religiosi: penso alle discoteche o ai locali notturni, ma anche ai grandi centri commerciali che sono ormai le nuove cattedrali del nostro tempo. Il consumismo, in altre parole, è diventato una forma di ritualità, che però a mio avviso non intende abolire, ma sostituire i riti religiosi. Ecco perché è importante intercettare questa domanda di sacro, dando però ad essa il giusto orientamento, come si fa all’interno delle celebrazioni liturgiche”.
In che cosa le nostre comunità devono cambiare, per diventare “attraenti” anche per l’uomo digitale?
“Dobbiamo dare più colore e calore alle nostre liturgie: i fedeli che vi partecipano devono percepire di essere immersi nel flusso del mistero, a partire però dal loro vissuto quotidiano. La categoria di ‘immersione’ è quella che rende così potente l’influsso dei nuovi media nella vita della gente: perché non recuperarla e rivisitarla ad uso liturgico? Chi partecipa alla Messa deve ‘star bene’, sentirsi a casa. Attenzione, però, a non usare trucchi o effetti speciali: i fedeli lo sentono subito, se nel rito hanno a che fare con dei prestigiatori”.