La valle dell’«unico» presepe

Il presepe di Francesco è unico, tanto unico da apparire ai nostri occhi paradossale. Se a qualcuno oggi venisse in mente di riproporlo tale e quale lo aveva realizzato lui, altro non susciterebbe che scandalo

Appena concepita, l’iniziativa della Valle del Primo Presepe era stata pensata con un titolo ben più ambizioso: “La valle dei mille presepi”.
Forse quel “mille”, strada facendo, pur nella sua evocativa suggestione di pienezza a tutto tondo, deve essere sembrato un po’ esagerato. Da una parte, chissà quante valli, ben più grandi della nostra, possono contare ben più di mille presepi. Dall’altra, quel “mille” rischiava di diluire qualcosa che invece sarebbe dovuto restare concentrato, condannando all’insignificanza ciò su cui invece si desiderava richiamare l’attenzione.

Si è pervenuti a un più saggio e realistico “Valle del Primo Presepe”, puntando, più che sulla quantità, sul primato. E qui l’orgoglio può essere più che giustificato: di presepi da quel lontano Natale del 1223 se ne sono fatti tanti, ma quello di Greccio voluto da san Francesco è stato il primo di una lunga serie, tanta la fortuna che nel tempo e nello spazio ha avuto la geniale intuizione del patrono d’Italia.
Una fortuna tanto grande che, insieme al crocifisso, è divenuto simbolo dell’identità cristiana. Tema, questo, prepotentemente e forse in modo un po’ sguaiato, tornato alla ribalta della cronaca a motivo dell’ostracismo di alcuni nei riguardi nei simboli della cristianità. Ma la priorità del presepe di Greccio ancora non coglie nel segno. C’è qualcosa che sfugge, c’è un di più ancora da rincorrere e da mettere in evidenza.

A me pare che, ben oltre la priorità, sia necessario mettere in evidenza l’unicità del presepe realizzato a Greccio da Francesco.
Mai nella storia ne fu realizzato un altro uguale. È questa unicità che dice la specificità dell’esperienza del Natale del 1223 a Greccio, maldestramente perpetuato nei secoli, smarrendone però il proprium, mutandolo in sacra rappresentazione, in scenografia bucolica d’altri tempi, oppure in improbabili quadretti provocatori con grattaceli, fabbriche, e carri armati e personaggi dello spettacolo o della politica, che forse non avrebbero un ruolo alcuno, se non fossero collocati nel presepe, dalla creatività canzonatoria, in bilico tra sacro e profano, dei buoni napoletani.

Più passa il tempo e più l’intuizione francescana viene in un certo senso stravolta. Francesco non voleva mettere in evidenza che Gesù nasce anche a Greccio, così come in ogni altro angolo della terra. La sua intuizione è più raffinata. Gesù è nato a Betlemme, lì e solo lì, lì e solo allora, ma quel “lì e allora” può diventare un “qui e adesso” a patto che “qui e ora” si verifichino le stesse condizioni di quel luogo sperduto e di quel lontano passato. È come se il mistero del Natale obbligasse la storia, inesorabilmente protesa in avanti, per una notte a fare inversione di marcia e, invece di correre verso la meta, si volgesse verso l’origine. Forse è contemplando dalle colline il bel fiume che attraversa la valle reatina che Francesco ha avuto una intuizione paradossale. Il futuro di un fiume non risiede nella foce, ma nella sua sorgente; la novità di un fiume sta alla sorgente, il futuro sta a monte e non a valle. Tornare alle origini per Francesco non era un ritorno al passato, ma una fuga nel futuro, l’avvenire è tutto racchiuso nell’emblematico in illo tempore con il quale la liturgia fa cominciare ogni racconto evangelico.

Forse è anche per questo che Francesco resta una figura irraggiungibile, inafferrabile, perché mentre noi cerchiamo il futuro nel domani, Francesco il futuro lo incontra nel passato, in un passato fondante e fecondo, nella sorgente da cui sgorga perennemente ogni novità. Francesco non lo incontreremo mai e mai lo comprenderemo fintanto che andiamo in direzione opposta.

Ma c’è di più. Il presepe di Francesco è unico, tanto unico da apparire ai nostri occhi paradossale. Se a qualcuno oggi venisse in mente di riproporlo tale e quale lo aveva realizzato lui, altro non susciterebbe che scandalo.

Leggiamo nella Vita prima di Tommaso da Celano: «Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia. Ora si accomoda la greppia, vi si pone il fieno e si introducono il bue e l’asinello. In questa scena commovente risplende la semplicità evangelica, si loda la povertà, si raccomanda l’umiltà». Un presepe ridotto all’osso! Non ci sono neppure Maria, e Giuseppe, e per il momento neppure Gesù: solo un asino, il bue e un mucchio di fieno: che scandalo! Ma Francesco mira all’essenziale. I fronzoli non gli sono mai piaciuti. È convinto che solo l’essenziale può rendere presente il Mistero; solo l’essenziale può dischiudere alla comprensione dell’Evento; solo l’essenziale è rispettoso di un Dio che viene nella carne; solo l’essenziale non ha il potere di soffocare l’Unico Necessario; solo l’essenziale riesce a non distrarre lo sguardo dal Protagonista, a cui nessuno deve rubare la scena.
Dal passato Francesco coglie una delle leggi che rendono possibile il futuro: l’essenzialità. L’essenzialità è legge di vita. Dio solo sa quanto la Chiesa e il mondo oggi abbiano bisogno di puntare su ciò che è essenziale, riscoprire l’Unico necessario, quel “quanto basta” che è segreto di fecondità e di autenticità.

Per la valle dell’unico presepe deve risuonare questo grido che è a un tempo grido d’allarme e annuncio di Vangelo: «Se vuoi futuro, torna all’essenziale». Se così non fosse, Greccio, Rieti e la sua valle avrebbero fallito la loro vocazione e la loro missione, espropriandosi da sé della specificità che le rende uniche, inimitabili, al riparo da contraffazioni, da maldestre imitazioni il cui fine è anestetizzare la prorompente forza d’urto di quanto Francesco fece, spalmandolo su un paesaggio bucolico. Suscitare emozioni devote, spesso serve solo a disinnescare lo scandalo pungente e provocante di un Dio che viene nella carne.

Credo si possa cogliere anche un altro aspetto. Continuando a leggere la descrizione che Tommaso da Celano fa di quella notte di Natale del 1223, ci imbattiamo in qualcosa di singolare: «Il santo è lì estatico di fronte alla mangiatoia, lo spirito vibrante di compunzione e di gaudio ineffabile». Francesco è in estasi di fronte al nulla. Dinnanzi a lui solo un bue, un asino, un mucchio di paglia: questo basta per la sua visione estatica. Quando agli occhi della carne si concede il minimo indispensabile, gli occhi del cuore possono avere accesso alla visione del massimo possibile. L’intento di Francesco non è quello di rendere visibile l’invisibile, ma di approntare uno spazio vuoto nel quale l’invisibile possa rendersi presente. È il vuoto che rende possibile la Presenza. Quel vuoto è e deve essere indisponibile a chiunque voglia usurparlo. Ogni usurpatore del vuoto è un idolo. Nel vuoto l’Assente si fa Presente e si rende presente nell’unico modo possibile, adagiandosi come cibo nella mangiatoia vuota. «Poi il sacerdote celebra solennemente l’Eucaristia sulla mangiatoia e lui stesso assapora una consolazione mai gustata prima». La mangiatoia nuda e cruda è messa lì da Francesco proprio perché in essa possa rinnovarsi il mistero di un pane che si fa Carne, di una Carne che si fa pane, dato in cibo per la moltitudine.

Il presepe di Greccio, il primo e ancor più l’unico presepe, è rimando all’Eucaristia. Se il presepe della valle reatina non richiamasse alla centralità dell’Eucaristia, sarebbe solo una operazione turistico-commerciale. Rieti è un richiamo all’estasi eucaristica, a vedere un Dio che si dà da mangiare; è stimolo ad alimentare il desiderio di nutrirsi di Lui per avere la vita. La Chiesa reatina che rimette al centro il presepe è una Chiesa che rimette al centro l’Eucaristia, mistero da assaporare e da gustare come fa Francesco in quella notte fatale, in cui non mette in scena una sacra rappresentazione, ma fa celebrare l’Eucaristia su una mangiatoia che diviene altare. Nei nostri borghi si moltiplicano i presepi viventi e le sacre rappresentazioni della natività, credendo di perpetuare una tradizione tutta francescana, senza rendersi conto che, se Francesco fosse ancora tra noi la notte tra il 24 e il 25 dicembre, si preoccuperebbe piuttosto della Eucaristia da celebrarsi su un altare singolare, come del resto ogni altare dovrebbe essere sempre: una mangiatoia.

Infine, «uno dei presenti, uomo virtuoso, ha una mirabile visione. Gli sembra che il Bambinello giaccia privo di vita nella mangiatoia, e Francesco gli si avvicina e lo desta da quella specie di sonno profondo […] per i meriti del santo, il fanciullo Gesù veniva risuscitato nei cuori di molti che l’avevano dimenticato, e il ricordo di lui rimaneva impresso profondamente nella loro memoria».
Per Francesco la notte di Natale è notte di Pasqua, è notte di risurrezione, notte nella quale far risorgere Gesù nel cuore di molti che l’avevano dimenticato.

Se questa operazione della valle del primo o unico presepe non avesse una valenza pastorale, come è nell’intento del nostro vescovo Domenico, e non riuscisse a far risorgere Gesù nel cuore di molti, allora avrebbe fallito il suo obiettivo. Molti plaudono all’iniziativa del nostro vescovo, ma a quanti interessa davvero che il «fanciullo Gesù» venga «risuscitato nei cuori di molti che l’hanno dimenticato»?