Questo articolo è la sintesi di un testo più ampio pubblicato sul prossimo numero di ‘La Civiltà Cattolica’ (4112).
Dialogando con i fisici, è probabile che essi dichiarino di credere nella bellezza delle leggi di natura. Va riconosciuto anche che la passione per la bellezza e la ricerca dell’armonia fanno parte dell’essenza stessa dell’uomo. Ma, dopo queste prime constatazioni, possiamo mettere in evidenza due aspetti. Il primo: un ‘atto di fede’ – come quello nella bellezza delle leggi naturali – non è esattamente ciò che uno scienziato dovrebbe evitare durante una ricerca? Il secondo, che è conseguenziale al primo: la passione per l’armonia potrebbe falsare l’obiettività e causare distorsioni cognitive, dalle quali il discorso scientifico dovrebbe essere libero. Lasciando in sospeso per un momento questo discorso, potremmo chiederci chi sia il più grande poeta di lingua inglese di tutti i tempi (i poeti vengono annoverati tra gli esseri umani che cercano spasmodicamente la bellezza): William Shakespeare, o Samuel Taylor Coleridge, o George Gordon Byron?
Molto probabilmente questa domanda non avrà mai una risposta univoca e soddisfacente. Potrebbe trattarsi di un quesito insolubile. Ad ogni modo, per Graham Farmelo, il più grande poeta anglofono di sempre è stato Paul Adrien Maurice Dirac. Questi è stato un fisico teorico inglese, che ha ricevuto insieme con Erwin Schrödinger il premio Nobel nel 1933 «per la scoperta di nuove forme della teoria atomica», confluite poi nella meccanica quantistica. Forse Farmelo non gode del rigore umanistico e letterario per discernere quale sia «il più grande tra i poeti anglofoni». O, più ragionevolmente, la sua affermazione vuole essere eminentemente provocatoria e rappresentare un invito a riflettere sia sulle somiglianze tra fisica e poesia – e sul fatto che hanno bisogno una dell’altra – sia su come il potere sottile della bellezza si manifesti in entrambi i campi.
In questo articolo prenderemo in considerazione come il sapere scientifico – similmente al discorso poetico – faccia ampio uso del linguaggio analogico, e come sia la scienza sia la poesia tendano – anche se a livelli diversi – a riassumere i propri concetti, preferendo una narrazione sintetica rispetto a descrizioni lunghe ed eccessivamente descrittive; ma soprattutto vedremo come la poesia e la fisica abbiano un occhio di riguardo per il gusto estetico, sia pure con le necessarie differenze. Agli occhi del fisico, la natura si esprime e, paradossalmente, lo fa attraverso un silenzio forte e chiaro; e allo stesso tempo è semplicemente ‘bella’. Ma il gusto del bello tra i fisici non è uniformemente condiviso, come pure la passione letteraria non è universalmente condivisa. Il sopraccitato Dirac affermava di non comprendere affatto la poesia e di non capire come alcuni tra i suoi illustri colleghi – tra i quali Robert Oppenheimer – potessero scrivere dei sonetti. Arrivò anche a sostenere di non capire «come un uomo possa lavorare alle frontiere della fisica e allo stesso tempo comporre poesie. Le due cose sono in contraddizione tra loro. In fisica si vuole dire qualcosa che nessuno sapeva prima in termini che tutti possono capire. In poesia si è costretti a dire cose che tutti già sanno in termini che nessuno capisce». Un’affermazione, questa, certamente icastica.
E Richard Feynman, diversi anni dopo, ribadiva questa affermazione, sostenendo che «i poeti dicono che la scienza toglie la bellezza delle stelle, riducendole solo ad ammassi di atomi di gas. Solo? Anch’io mi commuovo a vedere le stelle di notte nel deserto, ma vedo di meno o di più? […] Vedo un grande schema, di cui sono parte e forse la mia sostanza è stata eruttata da qualche stella dimenticata, come una, ora, sta esplodendo lassù. […] Qual è lo schema, quale il suo significato, il perché? Saperne qualcosa non distrugge il mistero, perché la realtà è tanto più meravigliosa di quanto non potesse immaginare nessun artista del passato! Perché oggi i poeti non ne parlano?». Di quale bellezza si parla, dunque, quando si giunge perfino ad annoverare i fisici come potenziali ‘grandi poeti’ e li si percepisce come artisti capaci di creare opere sublimi? Si tratta di un terribile e imperdonabile errore di valutazione, o c’è un certo senso estetico anche nella scienza? E se è così, qual è dunque il bello della fisica? Eugene Wigner si chiedeva come mai riusciamo a descrivere il mondo con la matematica, e rispondeva che essenzialmente il linguaggio matematico è meraviglioso ed esemplare non soltanto per il fatto di essere l’unico (universalmente parlato), ma anche per essere quello corretto (il più efficace per descrivere la natura). A questo punto il fisico ungherese parlava di un vero e proprio ‘miracolo’ e di un ‘dono’: il miracolo dell’appropriatezza del linguaggio matematico nella formulazione delle leggi della fisica, e il dono meraviglioso che non comprendiamo, né meritiamo. Nonostante Wigner dichiarasse di non credere in Dio, in questa sua posizione s’intravede uno spiraglio per una luce di sublime spiritualità. (…)
Possiamo tentare allora di individuare tre parametri principali per avere un’idea del ‘bello nella fisica’. 1) Semplicità. Questo vuol dire poter fare con meno: è il famoso rasoio di Occam. Si comprende però come questo concetto abbia un valore puramente relativo e non immediatamente quantificabile o scevro di un certo soggettivismo. 2) Naturalezza. Questo significa che non si fa uso di ipotesi scelte ad hoc, ossia che funzionino solo ed esclusivamente per il caso specifico considerato. In una visione naturale ogni assunto dovrebbe avere una giustificazione e non essere messo lì apposta. Questo aspetto lega la coerenza matematica, offerta come un’indicazione, alla compatibilità del modello matematico con i dati sperimentali. E tuttavia questo rimane un criterio di origine estetica e di validità della teoria, e non prettamente scientifico. 3) Eleganza. Questo è il criterio più elusivo. È una sorta di combinazione tra semplicità e stupore, che apre a una nuova consapevolezza e converge in una ‘chiusura esplicativa inattesa’, per usare un’espressione di Richard Dawid. L’eleganza emerge inaspettatamente dall’economia dei mezzi e non è formalizzata, né usata sistematicamente. D’altronde, come potrebbe esserlo, se essa è praticamente la manifestazione del genio scientifico? L’eleganza resta dunque un criterio soggettivo. La bellezza in fisica è quindi una combinazione di semplicità, naturalezza e una certa dose di imprevisto.
In conclusione, potremmo affermare che non importa quanto sia bella una teoria, non importa quanto sia intelligente la persona che l’ha inventata: se essa non è in accordo con i risultati dell’esperimento, è sbagliata. La fisica ci appare come un delicato e misterioso equilibrio tra intuizione estetica e geniale, da una parte, e rigorosa verifica logica e sperimentale, dall’altra. E qual è l’effetto pratico di questo fatto? Parafrasando Feynman, possiamo dire che, se la curiosità umana rappresenta un bisogno, allora gli studi hanno un senso pratico: quello di soddisfare tale curiosità.
da avvenire.it