(da Lazio Sette) Dall’archivio fotografico di Tonino Cipolloni, decano dei giornalisti reatini, ci giunge questa foto (a firma di un allora giovane Salvatore De Francesco, storico fotografo in città, che sarebbe stato in seguito, dal 1969 al 1988, anche presidente della Pia Unione Sant’Antonio) riferita al Giugno antoniano del 1945. Processione dei ceri subito dopo la Liberazione d’Italia: il sacro corteo passa sulla provvisoria passerella sul Velino realizzata dai vigili di Rieti con l’ausilio degli alleati, quando ancora erano accese le ferite della guerra con i residui del bombardamento che un anno prima aveva devastato il rione Borgo pochi giorni prima che la città venisse liberata (significativamente proprio il 13 giugno, memoria liturgica di Antonio di Padova).
In quella domenica del ‘45 la statua del santo, ricorda Cipolloni, “sanfrancescano doc”, «dopo il giro solito in via Garibaldi, piazza Mazzini, via Cintia, piazza del Comune e via Roma, non potendo passare al Borgo, sostò all’imbocco di via San Francesco riprendendo, dopo il passaggio della processione per la conclusione in piazza San Francesco». E l’allora bimbo Tonino era in processione con la schiera dei fanciulli dell’Azione cattolica: «Ricordo benissimo l’evento, il suono delle campane, le batterie cric–crac dei Morsani e dei Fenici, in assordanti festeggiamenti dopo cinque anni di guerra». Inevitabile l’amaro commento nel paragone con la situazione che si vive oggi: «tutto l’inverso dell’altrettanto assordante silenzio imposto oltre quanto fosse necessario ai festeggiamenti di quest’anno di coronavirus».
E già: senza pandemia, l’odierna domenica sarebbe stata quella del “trionfo” di sant’Antonio. La domenica in cui i reatini si sarebbero svegliati coi “botti”: i colpi oscuri che solitamente aprono la speciale giornata dal sapore unico, caro alla reatinità più autentica. Quella che le restrizioni costringono quest’anno a saltare. Niente turbe di fedeli direzionati verso San Francesco (anche se stavolta sarebbe stato comunque Sant’Agostino) per le affollatissime Messe sin dal mattino.
Niente tappa al “rito” della cioccolata, altra tipica tradizione che quest’anno vien meno. Niente sguardo ai tabelloni che riportano le liste delle quattro squadre di portatori: ieri sera non c’è stato il momento “topico” dell’estrazione dal bussolotto dei nominativi di quanti aspirano all’onore di “incollare” la pesante macchina processionale. E niente gente in strada sin dall’alba all’opera nelle infiorate, con famiglie intere nei rioni che – col supporto di parenti e amici che giungono a dare manforte da ogni dove – si cimentano nel comporre petali, foglie, chicchi di riso, segatura colorata, sale, fiori tritati, con preparativi che durano settimane, per trasformare in tappeti colorati di artistici “quadri pavimentali” gran parte del percorso della processione.
Niente musica di banda, donne in nero, autorità in fila, benedizione con la reliquia dinanzi alla Cattedrale, omelia conclusiva del vescovo in serata prima del grande spettacolo pirotecnico di mezzanotte che nessuno dei reatini, neppure il più allergico alla religione, è disposto a perdersi. Niente. Quest’anno è di pausa. Il 2020 passerà alla storia come l’anno senza l’effigie di sant’Antonio condotta in processione. Come mai avvenuto a Rieti: neppure in tempo di guerra, quando, racconta ancora Cipolloni, i festeggiamenti antoniani, per quanto ridotti, non vennero mai sospesi e tanto meno si annullò la processione dei ceri: «Certamente si celebrava in maniera un po’ dimessa ma con molta più intensa partecipazione: le raccomandazioni al santo si centuplicavano per chiedere protezione per i familiari al fronte o comunque sotto le armi. Altri tempi, altro clima, altro attaccamento alla nostra fede».