Il Gra tra sacro e profano

La vittoria a Venezia forse consacra un nuovo genere di racconto

A 15 anni di distanza da “Così ridevano” di Gianni Amelio, un altro film italiano torna a vincere il Leone d’oro al Festival di Venezia. Si tratta di “Sacro Gra”, diretto da Gianfranco Rosi, che la giuria capitanata da Bernardo Bertolucci ha voluto insignire del premio più alto nella settantesima edizione del Festival del cinema lagunare. Ma rispetto al film di Amelio, pellicola di finzione che raccontava il dramma dell’emigrazione, il desiderio di riscatto, la difficile integrazione sociale e la convivenza tra povertà e benessere nell’Italia in ascesa nel boom, un’epopea in stile neorealista che partiva dalla finzione per farsi ritratto realistico di un periodo ben determinato, “Sacro Gra” è un documentario, anche se anomalo, che parte dalla realtà per diventare poi racconto finzionale, una “storia” vera e propria come fosse stata scritta e pensata da uno sceneggiatore.

In 15 anni, dunque, le forme cinematografiche sono cambiate, i linguaggi si sono evoluti, e la vittoria di questa pellicola di Rosi dimostra come il genere del documentario sia ormai una realtà importante del panorama cinematografico, capace di grammatiche sempre più sofisticate. Intorno al Grande raccordo anulare di Roma (Gra) si svolgono diverse esistenze. Un nobile piemontese decaduto che vive con la figlia in un appartamento in periferia (accanto a un dj indiano), un pescatore d’anguille, un esperto botanico che combatte per la sopravvivenza delle palme, un paramedico con una madre affetta da demenza senile, delle prostitute transessuali, un nobile che vive in un castello affittato come set per fotoromanzi, alcuni fedeli che osservano un’eclisse al Divino Amore attribuendola alla Madonna e delle ragazze immagine di un bar.

Il film è raccontato in maniera non lineare, incrociando le diverse storie che il regista ha scelto di seguire e appare come una sorta di road movie che documenta l’eterogeneità. Intorno alla mastodontica struttura che racchiude Roma, Rosi ha studiato l’elemento umano, come sempre avviene nei suoi documentari che partono da un paesaggio per indagare i suoi abitanti. In questo caso il paesaggio umano che si muove nel paesaggio urbano a pochi metri dal raccordo, visto attraverso il montaggio che il regista fa delle decine di ore di materiale girato, diventa un paesaggio cinematografico. “Sacro Gra” scarta subito la soluzione più semplice solitamente lasciata ai documentari e riprende pochissimo il raccordo in sé: sono, infatti, gli uomini a definire il luogo e non viceversa, un’umanità assurda, paradossale e imprevedibile. Persone e caratteri che la realtà sembra ereditare dal cinema (tanto che ci si chiede cosa si sia ispirato a cosa). Si fa infatti fatica ad accettare la realtà documentaristica delle storie di questo film tanto il loro svolgersi pare in linea con i dettami e gli stilemi dei generi del cinema. Alcuni segmenti ricordano le commedie italiane anni ‘50, altri hanno personaggi che parlano di “antipasti della vendetta” e di attacchi come in un film di guerra, altri sono apertamente grotteschi e caricaturali, altri ancora non disdegnano il dramma intimista della vecchiaia.

Una pellicola, dunque, complessa, eterogenea, stimolante, che dimostra ancora come il cinema sia veramente una finestra sul mondo o meglio un obiettivo sul mondo che attraverso la sua lente lo trasfigura e ce lo mostra sotto nuove prospettive e punti di vista, facendoci conoscere a volte realtà che non avremmo mai avuto modo di incontrare.