Il braccio violento del Buddismo all’opera in Myanmar

Si è reso necessario persino l’intervento del Dalai Lama per fermare le aggressioni dei monaci, guidati da Wirathu (“il Bin Laden birmano”), nei confronti della minoranza islamica Rohingya. Altri episodi preoccupanti in Sri Lanka e in Tailandia.

Anche il Dalai Lama ha inteso fare un appello, nei giorni scorsi, ai monaci buddisti del Myanmar (ex Birmania), per chiedere loro di cessare gli episodi di violenza e gli attacchi mirati contro la minoranza musulmana Rohingya. Le violenze contro questa minoranza, originaria del Bangladesh – uno dei popoli più perseguitati del mondo, secondo le Nazioni Unite – hanno avuto inizio nel giugno del 2012, causando almeno 200 morti e oltre 140mila sfollati. Non riconosciuti dallo Stato birmano, i rohingya sono privi di cittadinanza, quindi immigrati irregolari. Secondo le stime dell’Onu sono almeno 800mila. Dal marzo di quest’anno, con gli scontri tra buddisti e musulmani a Meiktila, a Sud di Mandalay, le persecuzioni si sono allargate anche ad altre zone del Paese e hanno preso di mira anche altre comunità musulmane.

Il Bin Laden birmano. Nell’ultimo numero della rivista “Time”, la corrispondente dall’Asia, Hannah Beech, ha pubblicato un reportage su queste violenze e ha raccolto l’opinione del monaco buddista Wirathu, che si fa chiamare “il Bin Laden birmano”. “Questo non è il momento della calma. È il momento di ribellarsi, di farsi ribollire il sangue”, ha dichiarato il monaco. “Per il monaco estremista – ha scritto la Beech – i musulmani, almeno il 5% dei 60 milioni di abitanti della Birmania, sono una minaccia per il Paese e la sua cultura. Si riproducono in fretta e rubano le nostre donne, le stuprano. Vorrebbero occupare il nostro Paese, ma io non glielo permetterò. Il Myanmar deve rimanere buddista”. Nel mese di giugno, in Malesia, dove lavorano centinaia di migliaia di emigrati birmani, sono stati uccisi molti buddisti della comunità, secondo le autorità per ritorsione nei confronti delle stragi di musulmani avvenute in Birmania.

Il buddismo radicale nello Sri Lanka. Il Myanmar non è l’unico Paese asiatico dove si realizzano violenze da parte dei buddisti. Nel corso di quest’anno, nello Sri Lanka – dove la popolazione è a maggioranza buddista – i monaci hanno contribuito a organizzare la distruzione di case e negozi di proprietà di musulmani e cristiani. Il 9 agosto scorso, mentre i musulmani erano impegnati nella preghiera del venerdì nella moschea di Grandpass, a Colombo, un gruppo di monaci buddisti ha iniziato a lanciare pietre contro i fedeli, chiedendo loro di andarsene. Avvisata dell’attacco, la polizia è giunta sul luogo e ha imposto un coprifuoco fino alla mattina seguente. Il giorno dopo, la situazione è degenerata in nuovi scontri. Una folla di persone, guidata da monaci buddisti, ha attaccato di nuovo la moschea e le vicine abitazioni dei musulmani. Questi hanno stigmatizzato il mancato intervento degli agenti di polizia e soprattutto il fatto che le autorità hanno deciso di chiudere la moschea, aderendo di fatto alle richieste degli aggressori.

La situazione della Tailandia. Nel Sud della Tailandia, dove dal 2004 la rivolta dei separatisti musulmani ha fatto circa 5mila vittime, l’esercito thailandese addestra milizie civili e spesso accompagna i monaci buddisti nella questua mattutina. La commistione di soldati e monaci – che in alcuni casi si sono armati – esaspera l’isolamento percepito dalla minoranza musulmana in Tailandia. Racconta Hannah Beech nel suo reportage: “Il tempio di Lak Muang, nella città di Pattani, ospita dieci monaci buddisti e circa cento soldati: è diventato il centro di comando operativo del 23° battaglione dell’esercito tailandese, con una rete mimetica che circonda la base della struttura sacra. Ogni anno, migliaia di volontari buddisti vengono addestrati per unirsi alle milizie civili armate che hanno l’incarico di proteggere i villaggi”.