Hetty guarda il male negli occhi

In due opere il misticismo e la razionalità della giovane ebrea Hillesum

“Questa nostra barbarie dobbiamo rifiutarla dentro di noi, non dobbiamo coltivare in noi questo odio, altrimenti il mondo non verrà fuori d’un passo dal fango.”

Raramente parole sono state così profetiche in un momento in cui la parola profezia sembrava aver perso ogni significato, quando tutto precipitava nell’orrore e qualsiasi discorso poteva sembrare incapace a dire gli inferi nei quali la follia stava sprofondando il pianeta. A scriverle nel suo diario, il 15 marzo 1941, è la ventisettenne Hetty Hillesum, la cui colpa è di essere ebrea, il che, dopo l’invasione nazista nei Pesi Bassi del maggio 1940, significa condanna a morte. Ed infatti, l’accettazione del destino della sua gente nel campo di Westerbork (stazione di partenza per i lager in Polonia), quando avrebbe potuto darsi alla clandestinità, ha significato per lei e per la sua famiglia la fine, avvenuta il 30 novembre del 1943 ad Auschwitz.

Oggi, a cento anni dalla sua nascita, due libri la ricordano per il suo coraggio, la fedeltà al destino del suo popolo e per il misticismo che ne fa uno dei più fulgidi esempi di testimonianza al femminile durante il lungo inverno dello spirito europeo: si tratta di “Hetty Hillesum. Il bene quotidiano” (San Paolo, 100 pagine, a cura di Lorenzo Gobbi) e “Hetty Hillesum. Pagine mistiche” (Ancora, 144 pagine, con un commento di Cristiana Dobner). La citazione iniziale la dice lunga sulle capacità di rimanere ancorata ai frammenti di ragione lasciati dalla bufera. Nonostante la comprensione del terribile destino che incombeva su di lei e sulla sua famiglia, Etty (il suo vero nome era Esther) riesce a reggere l’urto. La vigilanza della sua ragione era stata rafforzata dall’amicizia con Julius Spier (nel diario semplicemente S.), allievo di Jung, psicoanalista armato soprattutto della Bibbia e di una profonda religiosità. Ma era anche la lettura dell’amatissimo Rilke, oltre che di Antico e Nuovo Testamento, sant’Agostino e Dostoevskij, a darle una forza superiore, in grado di oltrepassare il male, contro il quale, scrive Etty, non si può combattere con altro male: significherebbe rimetterlo continuamente in circolo.

Il suo misticismo sfiora il pensiero di altre due donne, Simone Weil ed Edith Stein, che hanno combattuto contro il sonno della ragione, e che hanno toccato vertici abissali nella ricerca di Dio, “al crocevia tra ebraismo e cristianesimo”, come suggerisce il commento a “Il bene quotidiano”: “L’anima non ha patria, quando tutto è detto e fatto, ovvero ha una sola grande patria, senza confini”.

L’inquieta fanciulla ora, a contatto urticante con una realtà inimmaginabile solo due anni prima, faccia a faccia con il male sulla terra, lo guarda negli occhi senza abbassare i suoi e lo affronta nell’unico modo possibile: “Il mio fare consisterà nell’essere”, scriverà quando tutto era perduto, nel settembre 1942: vale a dire che la contemplazione non deve impedire l’azione, l’aiuto agli altri, ai sofferenti, agli abbandonati, fino alla finale offerta di sé. Con il sacrificio di quella sirena ammaliante che era l’isolamento nelle vette della cultura: “Dobbiamo dimenticare tutti i nostri paroloni, (…) e dobbiamo diventare semplici come la pura acqua sorgiva. Soprattutto un poco meno verbosi”.

È questo il suo misticismo: non cercare il lontano luogo delle meraviglie, ma trovarlo lì dove si è: “Tutti i panorami sono dentro di me. E c’è spazio per tutto. La terra è in me, e anche il cielo è in me” (in “Pagine mistiche”), che la avvicina ad una poetessa mai citata in queste pagine, eppure per certi versi a lei assai prossima, Emily Dickinson.

Avviandosi alla ormai certa fine, il Dio finisce col diventare persona, identità, lacerante alterità-comunione. Una “terminale” frase (in “Il bene quotidiano”) esclude ogni possibilità di umano commento: “Non mi sento assolutamente mai impoverita, ma ricca e quieta: Dio e io, adesso, siamo rimasti del tutto soli. Buona notte”.