Frate Alois racconta il viaggio in Sudan e Sud Sudan: qui “non c’è più speranza”

“Quando guardiamo i popoli del Sud Sudan, che davvero vivono grandi difficoltà e quando li guardiamo negli occhi, le barriere cadono, i nostri cuori si aprono e diventiamo più umani. E paradossalmente, in questo incontro, una gioia ci viene donata”. Fr. Alois racconta al Sir il viaggio di due settimane in Sudan e Sud Sudan

La generosità di tante persone che operano sul campo, il coraggio delle donne, la gioia contagiosa dei bambini, l’attesa di papa Francesco. Visita di due settimane del priore della comunità di Taizé, fr. Alois, in Sudan e Sud Sudan, “per meglio comprendere la situazione di questi due Paesi, incontrare gli operatori sul posto e pregare con e per coloro che sono tra le popolazioni più provate del nostro tempo”. A darne notizia è la comunità specificando che il priore ha visitato per una settimana Juba e Rumbek, nel Sud Sudan, e poi per un’altra settimana Khartum, capitale del Sudan. Al suo rientro in Francia, il Sir ha raggiunto telefonicamente fr. Alois.

Quale situazione avete trovato in Sud Sudan?
Il Sud Sudan sta vivendo un momento di grande difficoltà, che sta provocando nelle persone un senso di pessimismo.

Non c’è più speranza.

Il Paese è vittima di una inflazione galoppante, i salari non vengono retribuiti da alcuni mesi, e la violenza aumenta e dilaga tra ogni gruppo all’interno del Paese dove circolano molte armi. Ma ho potuto anche vedere la presenza di molte Ong e di Chiese che insieme fanno un lavoro enorme nei settori dell’insegnamento, della solidarietà, cura dei malati, vicinanza agli esclusi e questa presenza è un segno di speranza.

Qual è la cosa che più l’ha colpita in questi giorni?
Sono stato particolarmente colpito dal coraggio e dallo spirito di perseveranza delle donne in questo Paese. Le madri, spesso giovanissime, prendono su di sé una gran parte della sofferenza causata dalla violenza.

Ma non si lasciano abbattere, perseverano con coraggio.

Percorrono lunghi chilometri per andare al mercato, vendere qualche cosa, e fanno tutto portando i loro figli avvolti in una pelle di capra. Nei campi profughi che abbiamo visitato, ricordo una donna che ci ha raccontato come cercava di essere mediatrice di riconciliazione e di pace, attorno ad un punto di raccolta d’acqua. Perché l’acqua non è sufficiente e le donne si mettono insieme per garantirne una distribuzione equa tra tutti. Sono impegni di grande coraggio vissuti tra i più poveri.

Alla luce di questa esperienza, chi è la donna?
Sono spesso madri che riescono malgrado le difficoltà a rimanere in piedi.

Sanno che non possono fare progetti a lungo termine ma vivono, giorno per giorno, occupandosi degli altri.

Tra le persone rifugiate nei campi delle Nazioni Unite, abbiamo incontrato madri che arrivano con i loro figli e con altri bambini. Non è raro incontrare donne con 10-12 bambini perché lungo il percorso si sono prese cura di chi ha perso i genitori. Spesso infatti nella fretta della fuga, le famiglie si dividono, i genitori perdono i loro figli. E madri che già non hanno nulla per loro e per i loro figli, non esitano a prendersi cura degli altri bambini. E lo fanno con naturalezza. Dunque, quale forza interiore ho visto in queste donne! Ne sono rimasto ammirato nel profondo.

E i bambini?
Laddove ci sono dei bambini, c’è sempre gioia. C’è gioia anche quando c’è solo il minimo necessario, come nel caso dei campi profughi dell’Onu. Nelle scuole dove siamo andati, nei campi che abbiamo visitato, i bambini ci hanno sempre accolto con la gioia di ricevere una visita.

È impressionante essere toccati dalla gioia di questi bambini.

Certamente non sanno che l’avvenire, che li attende, sarà molto difficile. Li vorresti preservare in questa gioia, vorresti che possano continuare a viverla anche quando saranno cresciuti. Sono riconoscente per questi momenti di gioia che ho ricevuto dai bambini.

Il Papa ha annunciato qualche tempo fa la visita in Sud Sudan e Sudan insieme all’arcivescovo anglicano Justin Welby. C’è attesa tra le persone per questa visita?
Le persone attendono il Papa, attendono una sua visita. Sarebbe per loro un enorme incoraggiamento. Perché si sentirebbero riconosciute e sentirebbero che il loro grido è ascoltato. Questa gente ha spesso l’impressione che il loro grido cade nel vuoto e se il Papa potesse andare, questa visita darebbe loro un grande coraggio. Lo aspettano.

Quando il Papa accetta di rendere visita ad un Paese, incrocia spesso delle realtà ecumeniche consolidate. Che tipo di ecumenismo ha visto nei due Paesi?
C’è un Consiglio ecumenico che riunisce le Chiese e che lavora bene. Ciò non si traduce ancora e sempre in azioni comuni, nelle scuole e negli aiuti umanitari ma penso che in futuro ci sarà una collaborazione crescente.

L’ecumenismo è chiamato oggi a farsi carico dei problemi reali della gente.

Sicuramente ci sono ancora dei passi da fare, perché l’aiuto sia vissuto insieme dalle Chiese in modo ecumenico.

Lei ha detto che all’incontro europeo dei giovani che si terrà a Basilea alla fine dell’anno, parlerà di questa esperienza. Che cosa dirà ai giovani? 
Non so ancora cosa dirò. Penso però soprattutto due cose. Da una parte, mi chiedo come poter comunicare questo grido di dolore che sale dalla miseria, dalla violenza, e cosa fare perché questo grido sia ascoltato, perché le persone non abbiano più l’impressione che il loro grido cada nel vuoto, e perché noi ci facciamo più prossimi a queste situazioni. Ma vorrei anche dire un’altra cosa, raccontare la mia esperienza personale: quando facciamo simili visite, quando ci approcciamo a queste situazioni, diventiamo più umani. Sono esperienze che ci fanno abbandonare le nostre certezze, il nostro senso di superiorità. Ci rendiamo conto che talvolta in Europa ci poniamo dei falsi problemi.

Quando guardiamo i popoli del Sud Sudan, che davvero vivono grandi difficoltà e quando li guardiamo negli occhi, le barriere cadono, i nostri cuori si aprono e diventiamo più umani. E paradossalmente, in questo incontro, una gioia ci viene donata.

È forse una scintilla di gioia, che dura un momento, ma è la gioia di un incontro, di una comprensione nuova. Una gioia vera. Quindi due cose: il grido della miseria e della violenza che dobbiamo ascoltare ma anche l’esperienza di diventare più umani quando ci avviciniamo a queste situazioni. Oggi in Europa abbiamo bisogno di questi incontri che ci rendano più umani, che ci aiutino ad uscire da problemi che non sono essenziali. Visite come quelle in Sudan e Sud Sudan mi hanno reso più cosciente di ciò che è essenziale nella vita. Che la vita è un dono prezioso. Che dobbiamo ringraziare per il dono della vita e fare di tutto perché chi soffre, possa vivere con dignità.