Nel romanzo di Santagata, “Come donna innamorata”, la complessità amorosa.
“L’amore, dico l’amore vero, annebbia il cervello. L’amore ti sfibra l’anima. L’amore vero – disse scandendo le sillabe – è sofferenza”.
Dante Alighieri è di fronte al suo amico e maestro Guido, della nobile famiglia dei Cavalcanti, “loico”, vale a dire pensatore e filosofo piuttosto libero da remore religiose. Molto diverso dall’allievo, che seguirà altre vie filosofiche, poetiche e politiche. Apparentemente, però. Perché il romanzo di Marco Santagata, “Come donna innamorata” (Guanda, 174 pagine) indica strade un po’ diverse dalla consueta idea che abbiamo di quell’amicizia tra un maestro ateo e un allievo intriso di san Paolo e san Tommaso.
L’autore, grande esperto di Petrarca e curatore delle opere di Dante per la collana dei Meridiani, ci dice che la realtà è molto più complessa, e che i disegni degli uomini devono fare i conti con quelli di Dio o, se si vuole, del destino. Il dubbio che assalirà il lettore alla fine della lettura di questa storia, che ci racconta l’amore di Dante per Bice dei Portinari, la Beatrice della Vita Nuova e della Commedia, è che nulla è mai quello che sembra.
Cavalcanti, con il suo esibito scetticismo, porta Dante di fronte ai limiti della realtà di tutti i giorni e l’aiuta a superarla in quel sogno che per molti è aria fritta e per altri, invece, origine delle speranze e degli ideali.
È vero che per Cavalcanti l’amore è sofferenza, ma lo sarà anche per il Dante. Dove abita la differenza, allora? Nel fatto che la lezione di Guido diviene ancor più valida perché si rivela una faccia della verità. Dante se ne accorge ricorrendo ai ricordi e alle chiacchiere familiari. Gli dicono che a nove mesi, aveva avuto una crisi – forse epilessia – che sembrò per un attimo minacciare la sua vita, e che invece cessò al momento della notizia della nascita di Beatrice.
Il Poeta vedrà poi la fanciulla a nove anni, e poi la incontrerà di nuovo a diciotto. Dunque la nascita di Bice coincide con la salvezza del bambino, ma dopo che la sua vita è stata posta in pericolo, pochi istanti prima. Quella nascita decreta la coincidenza di amore e morte. Sotto il regno del sacro numero nove, il numero della Trinità portato a specchio di se stesso.
Solo alla fine Dante si renderà conto che Cavalcanti aveva ragione, che amore è morte, sofferenza, inabissamento nel dolore, nella mancanza e nella paura. Capirà, ma solo dopo la rottura con il maestro, che le parole hanno un limite, ma che indicano lo stesso la strada, a saperne accettare l’opacità. Tanto che un pensiero rende felice Dante: che Guido “da lassù vede la verità e ne gioisce. E la verità è che lui è stato il mio Battista. È l’ordine delle cose”.
Non è una interpretazione scandalosa: Dante ha mostrato spesso di non avere paura nel prendere posizione, anche quando si trattava di potenti e dei papi. Persone che secondo molti avrebbero dovuto trovarsi all’inferno, come Manfredi, nel Poema Sacro sono salve.
Il fiorentino dunque sapeva che le strade tracciate da Dio sono diverse da quelle immaginate dagli uomini, anche dalla Chiesa di allora, e che alcuni messaggi che ci sembrano negativi potrebbero invece portare alla speranza, contro tutto e tutti.
Non è un caso che Virgilio sia costretto a convincerlo, a pochi metri dalla collina del sole, che rappresenta la salvezza, a dover rinunciare a proseguire. Anzi, deve fargli accettare la strada opposta, quella degli inferi. Il poeta deve inabissarsi nel dolore, proprio e degli altri, per potersi riconciliare con se stesso e con la propria storia.
Dante degli Alighieri deve affrontare il lato oscuro per poter rivedere la luce, e sarà un luce diversa, abissalmente. Non più quella di una donna, seppure amata fin dal principio, ma di una manifestazione divina.
Anche l’amore per un amico scettico e ironico si rivela una strada, anzi, un invito a scendere nelle contraddizioni dell’apparente e a trovare l’unità del tutto e con il tutto.
Alla fine, non è un paradosso, Dante si accorge che aveva visto giusto l’antico e scontroso amico, maestro degli scettici e dei “loici”: senza la prova della sofferenza non è lecito parlare dell’amore, e che, il Cantico non mentiva, l’amore è forte come la morte.
L’amore umano viene raccontato in questo romanzo come collegato intimamente a quello più alto, che tutto comprende e assorbe, anche quando pone ostacoli che sembrano insuperabili.