Cinema

Fernandel, l’amico dell’Italia che fu

Cinquant'anni fa moriva l'attore francese, il Don Camillo dei film ispirati ai racconti di Guareschi. Frequentò Brescello e conquistò il pubblico, lo scrittore emiliano e Gino Cervi-Peppone

Arrivava ogni volta a Brescello a bordo della sua Cadillac nera con autista in livrea e segretaria al seguito. Un’entrata da divo. Veniva dalla sua Marsiglia e si portava dietro ingredienti e spezie per preparare i piatti della cucina provenzale ai quali, per patriottismo e golosità, non sapeva rinunciare. Ci avrebbe pensato la sua collaboratrice Tina a preparaglieli, dove e quando poteva, usando fornelli in prestito. Per il resto Fernandel, che per stare leggero durante le riprese del film a pranzo mangiava solo insalata e cipolle in una sala riservata del ristorante “Il Portico”, non disdegnava affatto di gustare culatello e parmigiano in compagnia dell’amico e collega Gino Cervi, in qualche posto segreto nel borgo della Bassa emiliana che per quasi vent’anni (dal 1951 al 1970) è stato il set a cielo aperto di cinque film e mezzo della celeberrima saga di don Camillo. Il pretone furbo e manesco pensato dal genio di Giovannino Guareschi come antagonista del sindaco comunista Peppone, è stato l’ultimo degli oltre centocinquanta personaggi interpretati dall’attore francese nella sua carriera cinematografica, ma certamente quello che lo ha reso popolare in tutto il mondo.

Francese sì, Fernand-Josef-Désiré Contandin detto Fernandel (il nome d’arte glielo suggerì la suocera), scomparso a Parigi 50 anni fa (il 26 febbraio del 1971), francese della Région Sud, per la precisione, ma con sangue anche un po’ italiano. Entrambi i genitori, di origine occitana, erano tornati Oltralpe dopo aver vissuto in un paesino a una ventina di chilometri dalla frontiera francese, Passior, nella frazione di Meano del Comune di Perosa Argentina, provincia di Torino: i resti della vecchia casa dei Contandin sono ancora visibili, indicati da un cartello sulla strada statale per il Sestriere che segue la Val Chisone. Il trisavolo paterno di Fernand, invece, che si chiamava Thomas, veniva dal villaggio di Fenestrelle, ancora più vicino al confine, dove aveva lavorato come doganiere. Fu suo figlio Auguste Hippolite, nonno dell’attore, a trasferirsi definitivamente a Marsiglia, città nella quale lavorò come mediatore marittimo. Ma la famiglia Contandin vanta anche un ramo ligure rappresentato dalla nonna paterna di Fernand, Blanche Marie Caroline Joséphine Maglione, il cui padre era originario di Laigueglia, in provincia di Savona; nell’albero genealogico, inoltre, figurano antenati con il cognome Bajolo, anch’esso di chiare radici savonesi.

In ogni caso Fernandel era un francese che amava il nostro Paese, anche se non parlava l’italico idioma e preferiva comunicare con i larghi sorrisi a trentadue denti della sua mobile faccia equina. Quando si trovava in Italia per girare i film nei panni di don Camillo alloggiava in un hotel di Parma e durante le pause tra un ciak e l’altro passeggiava per le vie di Brescello senza togliersi mai la tonaca. Nemmeno quando si sedeva ai tavoli del Bar Centrale di piazza Matteotti, di fronte alla “sua” chiesa, per sorseggiare a mezzogiorno il solito bicchierino di Pernod. E per i brescellesi era come un secondo parroco, una specie di istituzione. Malgrado il suo essere, per carattere, scostante e riservato, suscitava ammirazione e simpatia agli abitanti del paese. A Franco Interlenghi, il giovane Mariolino del primo Don Camillo, raccontava fuori scena barzellette osè. Ma non amava i bagni di folla. Il 26 agosto del 1956, Fernandel fu invitato a Milano per partecipare come ospite a una puntata della trasmissione televisiva Uno, due, tre, negli studi della Rai di corso Sempione: era il varietà di grande successo presentato da Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello. L’attore giunse nel capoluogo lombardo con i figli Franck e Janine ma appena uscito dall’hotel che lo ospitava, nei pressi di piazza Fontana, venne letteralmente assalito da decine di ammiratori che gli impedirono di fare una passeggiata in corso Vittorio Emanuele. Fu subito riconosciuto nonostante un cappello calato sul viso. Cercò di farsi largo tra la calca per raggiungere il Duomo ma ogni tentativo fu inutile. La gente gridava «C’è don Camillo! C’è don Camillo!». Il traffico si bloccò, sopraggiunsero i fotografi e la ressa si fece ancora più tumultuosa: non era ancora il tempo dei selfie ma tutti volevano farsi immortalare con una foto accanto all’attore. Lo spingevano, lo accarezzavano, gli stringevano la mano. E Fernandel, per liberarsi, fu costretto a salire al volo sul predellino di un taxi che transitava sulla via e a ordinare al conducente di fuggire. «Dove andiamo?» gli domandò il tassista. «In qualunque direzione – rispose –, anche all’inferno, purché mi allontani da qui!». Non si era fatto molti amici, Fernandel, negli anni in cui frequentò Brescello. Per la parte di don Camillo fu scelto dal regista Julien Duvivier contro il parere di Guareschi che protestò col produttore Angelo Rizzoli: «Ma questo non è il mio prete! Con quella faccia cavallina e la corporatura esile non assomiglia affatto a quello che ho immaginato nei miei racconti». Si ricredette, però, quando lo vide recitare. Formidabile. «Ora non potrei più scrivere una sola storia di don Camillo senza vedere il suo volto e i suoi denti», commentò in seguito lo scrittore. E lo stimò così tanto, anche umanamente, che gli chiese di fare, insieme a Gino Cervi, il padrino di battesimo di sua nipote Giovanna.

Ed è proprio con l’attore bolognese che Fernandel divenne veramente amico. Insieme interpretarono il “carosello” che pubblicizzava il famoso «brandy che crea un’atmosfera». Si intendevano anche fuori dal set. Un giorno i due fecero una scorpacciata di parmigiano e l’attore francese prese un’indigestione: la mattina seguente la troupe dovette aspettarlo più di un’ora prima di cominciare a girare. Non era mai accaduto. E quando l’amico marsigliese morì, in conseguenza di una malattia i cui primi segni si palesarono proprio sul set di Don Camillo e i giovani d’oggi, Gino Cervi non riuscì a partecipare ai funerali perché impegnato a teatro. Alla notizia della scomparsa pianse, in camerino, e mandò una corona di garofani bianchi con la scritta «A Fernand, son ami Peppone». Quel giorno di cinquant’anni fa, segnò la fine di un’epoca.

da avvenire.it