Più disabili, meno badanti

La crisi pone interrogativi nuovi sull’assistenza familiare.

Sebbene in Italia cresca il numero di persone con disabilità, si fatica a offrire un sistema di assistenza adeguato. Anzi, le risorse a disposizione si contraggono.

I risultati di “Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali”, prodotti da Censis e Unipol, indicano che la spesa sanitaria privata per la sanità e l’assistenza ha subito una battuta d’arresto nell’ultimo anno.

Le famiglie hanno rinunciato a 6,9 milioni di prestazioni private e per la prima volta è diminuito il numero di assistenti familiari che lavorano nelle case con anziani non autosufficienti, 4 mila persone in meno.

Non è diminuito, invece, il numero delle persone che ne hanno bisogno. Il Censis ne stima 4 milioni. E le aspettative per il futuro sono di crescita: la proiezione del trend dell’invecchiamento demografico ne prevede poi 4,8 nel 2020 e 6,7 milioni nel 2040.

Per completare il quadro della situazione è utile tenere presente che secondo l’Istat la quota delle famiglie con una persona con “limitazioni funzionali” è dell’11,4%. Molte sono persone sole (il 40%), un gruppo più piccolo (6,2%) è composto da nuclei dove tutti hanno disabilità, mentre nel 53,8% dei casi c’è almeno un componente della famiglia in grado di farsi carico degli altri.

Con l’aumento degli anziani, e con esso del numero dei non autosufficienti, le famiglie si ritrovano sguarnite e a volte impreparate di fronte al problema. Finora la rete di prossimità ha funzionato anche per la ricchezza delle risorse del territorio e per la capacità dei nuclei familiari di armonizzarle (assistenza pubblica, privata, badanti); c’è bisogno però di un salto di qualità nell’offrire risposte adeguate a un fenomeno che si estende.

L’assistenza è difficile in un sistema che ancora non ha trovato la modalità di integrare un welfare sanitario complesso, dove sono presenti attori diversi: famiglie, imprese private, no profit e servizio pubblico. D’altronde i segnali sono contrastanti: da un lato ci sono famiglie oberate e sofferenti, dall’altro un servizio sanitario nazionale che riscuote ampia fiducia, ci dice l’Istat (un indice di gradimento degli utenti è pari a 8 su una scala da 1 a 10), ma ha liste d’attesa inaccettabili per il 75% della popolazione. Poi ancora ci sono le strutture private che presentano spesso costi più elevati.

Per offrire una soluzione c’è un nodo da sciogliere sui confini tra pubblico e privato: alcuni sostengono l’opinione di alimentare il settore privato perché è più veloce. Gli stessi aggiungono che la “white economy” – come la chiama il Censis – potrebbe essere un volano occupazionale. Altri sottolineano però la difficoltà di ampliare il mercato nel campo della salute, perché diventerebbe più complesso garantire a tutti, soprattutto ai più poveri, le cure e l’assistenza; sarebbe allora più opportuno investire in un sistema sanitario con un forte ruolo, attribuito al settore pubblico, di coordinamento nella gestione dei servizi e di garanzia sugli standard delle prestazioni.

Dentro il nodo, l’integrazione del welfare sanitario rimane sospesa. Facile prevedere che nell’inerzia saranno gli interessi dei primi ad averla vinta, anche se sarebbe opportuno privilegiare il diritto alle cura delle persone rispetto alle logiche di mercato, utili invece per ottimizzare i costi.