Cinema

Delon il bello, Belmondo il nuovo che avanzava: addio Jean-Paul

Se Delon, pur bravo, si muoveva nella tradizione degli attori giovani del cinema classico, fu Belmondo a catturare l’attenzione dei giovani critici, in quanto più irriverente e aggressivo

I funerali di Jean-Paul Belmondo, morto lunedì all’età di 88 anni, si svolgeranno venerdì a Parigi nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés. Lo ha annunciato l’avvocato dell’attore, Me Michel Godest. La cerimonia avrà luogo alle 11. Le spoglie dell’attore saranno poi cremate. Il giorno prima, giovedì, l’Eliseo ha annunciato che gli verrà tributato un omaggio nazionale nel complesso degli Invalides.

Tre erano i giovani attori che si imposero alla fine degli anni Cinquanta nel rinnovamento del cinema francese, nella rivolta della Nouvelle Vague contro il “cinema di papà”: Belmondo il più “nuovo”, Alain Delon il più bello (che “esplose” sullo schermo grazie a due grandi registi italiani uno dei quali molto “classico”, Visconti e Antonioni) e Laurent Terzieff il più bravo e il più sfortunato, che ebbe delle piccole rivincite come attore teatrale.

Ma se Delon, pur bravo, si muoveva nella tradizione degli attor giovani del cinema classico, fu Belmondo a catturare l’aattenzione dei giovani critici, irriverente, aggressivo, spavaldo, e soprattutto ribelle alle convinzioni sociali, nella scelta di una quasi marginalità dei suoi primi personaggi, e non solo.

E il ruolo costruito su di lui da Jean-Luc Godard nel 1960 in A bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) fu decisivo, seguito da quello di Pierrot le fou, per la sua affermazione. Fu “nuovo” anche nei film italiani in coproduzione (una bellissima tradizione persa da tempo) come La viaccia di Bolognini, Lettere di una novizia di Lattuada, e perfino La ciociara di De Sica, dove era il pretino buono che incantava la figlia della ciociara.

Senza dimenticare Mare matto di Castellani, sfortunato tentativo di narrare la gente di mare, dove era al fianco di una insolita Lollobrigida. Aveva già fatto credibilmente il prete nel bel film di Melville Léon Morin prete, dal dimenticato (e bellissimo) romanzo di Béatrix Beck sull’amicizia, non l’amore, tra una giovane e un prete nel mezzo dell’occupazione prima italiana e poi tedesca di una cittadina meridionale.

La simpatia suscitata dalla sua spavalderia lo portò naturalmente al cinema poliziesco e d’avventura, il più fortunato di tutti i tanti film el genere fu L’uomo di Rio di Philippe de Broca, e poi Cartouche, in costume, ma fu ancora Melville a cucirgli addosso i panni di un antieroe simenoniano, in Lo spione e in Lo sciacallo, e fu in quest’ultimo che dette forse la sua migliore interpretazione.

In Borsalino, un poliziesco alla marsigliese però in costume d’anteguerra, ebbe a fianco Delon, e il film spopolò, segnando il definitivo trionfo dei volti nuovi del cinema francese. La Nouvelle Vague non spaventava più, e i suoi registi e i suoi attori rientravano rapidamente nell’ordine del commercio e del successo. Belmondo era simpatico ed era bravo, e aveva avuto qualche esperienza teatrale e di scuola, prima che Godard lo scoprisse. E per il resto della sua carriera fu sempre un solido professionista senza grilli in capo, che seppe servirsi del suo aspetto e del suo fisico ma che era tutt’altro che rozzo culturalmente. Furono tanti a paragonarlo con il Gabin degli anni trenta, di cui talvolta ripeté il cliché.

Un altro incontro da non dimenticare fu quello con Truffaut, per La mia droga si chiama Julie, che era però uno di quei film dove finalmente Truffaut si liberava dal “buonismo” della serie di film sul giovine piccolo-borghese perbene Jean-Pierre Léaud, e restano i noir i suoi film meno invecchiati. Da ultimo, divenuto un’icona dell’immaginario francese, Belmondo, come era accaduto a Gabin, prese a gigioneggiare, a imitare Belmondo. Ma al suo volto irregolare e al suo ghigno ci si era affezionati, il grande pubblico come i cinéphiles, fedeli questi all’immagine che ne aveva consegnato per sempre Godard, nella storia del cinema, nella storia del costume, nella storia dell’immagine del maschio nella cultura del Novecento.

da avvenire.it