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Covid, centomila volti nel cuore d’Italia: le loro storie

Con i 318 morti di lunedì è stata superata quota 100mila decessi dall’inizio della pandemia. Da Adriano Trevisan, il primo ufficiale a Vo’, a Maria Teresa di Torre del Greco, l’ultima: le loro storie

Superata, lunedì 8 marzo, la soglia dei centomila morti per la pandemia da Covid-19. Nessuno lo avrebbe immaginato un anno fa, quando il virus arrivato dalla Cina cominciò a stravolgere la nostra vita personale e collettiva, che l’Italia potesse toccare questo tragico primato tra i Paesi dell’Ue. Si pensava a soluzioni capaci di fermare prima questa strage degli innocenti, dei fragili, di gente comune e degli eroi che ci hanno aiutato a sopravvivere svolgendo la loro missione negli ospedali, negli ambulatori, nelle case di riposo, a bordo delle ambulanze o nelle parrocchie, tra i fedeli che chiedevano sacramenti e conforto. Ma per dodici mesi è stato uno stillicidio. E, dicono gli esperti, ancora lo sarà.

Solo lunedì il bollettino del ministero della Salute ha fatto registrare 318 vittime, 110 in più di sabato, portando il computo complessivo, appunto, a 100.103: una cifra da brivido piombata come un (pur previsto) macigno nel solito ‘tranquillo’ lunedì nel quale si sono contati meno contagi che nel resto della settimana (13.902, lunedì 8 marzo) a causa del forte calo di tamponi effettuati nel giorno festivo (184.684 quelli di domenica scorsa, con un tasso di positività stabile, al 7,5%).

Centomila croci, centomila persone con un nome e un volto che se ne sono andate senza fare rumore. Ma che già fanno parte della nostra identità nazionale. Non ce li scorderemo. Come i morti di Bergamo, di quella orribile notte di mercoledì 18 marzo, quando davanti al famedio del cimitero monumentale, diretti ai forni crematori di altre città, sfilarono una dozzina di camion militari colmi di bare che non si sapeva più dove mettere.

O come i medici che si sono ammalati perché costretti, nella prima fase dell’epidemia, a curare i loro pazienti senza mascherina né altri mezzi per proteggersi dall’infezione. Fino a lunedì 8 marzo ne sono morti 333. Uno degli ultimi decessi accertati, il 1° marzo, è stato quello di Maria Teresa d’Istria, medico di base a Torre del Greco, Napoli. Il primo camice bianco ad essere ucciso dal coronavirus era stato Roberto Stella, presidente dell’ordine dei medici di Varese, l’11 marzo del 2020. Il giorno dopo toccò a Giuseppe Lanati, pneumologo al Sant’Anna di Como, e poi a Marcello Natali, 57 anni, il ‘dottor coraggio’ di Codogno, anche lui contagiato dopo aver visitato pazienti affetti dal virus che in quella terra padana aveva colpito subito duro.

Ma ci sono anche gli inferieri e gli operatori socio-sanitari, nella tragica lista dei decessi. Oltre 150, forse più. Tanti. Troppi. Ma la prima vittima ufficiale della pandemia è stata un pensionato di 78enne di Vo’ Euganeo, nel Padovano: si chiamava Adriano Trevisan ed era un ex muratore. Morì poco dopo le 22.45 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Schiavonia dove era stato ricoverato dieci giorni prima per le complicazioni di una presunta influenza. Che in realtà era la Sars-Cov2, come si scoprì con i risultati del test effettuato post mortem.

E poi ci sono i preti. Più circa 250 sono deceduti a causa del virus. Storie di tonache ‘anonime’ ai più ma non a quelli che li hanno incontrati in confessionale o all’oratorio. Storie come quelle di don Mario e don Giovanni Boselli, sa- cerdoti gemelli della diocesi di Piacenza. «Erano anziani, nati nel 1932 e molto conosciuti in provincia». Sono morti a quattro giorni di distanza l’uno dall’altro, racconta Riccardo Benotti nel libro Covid-19: preti in prima linea (edizioni San Paolo). E tra i preti che hanno sfidato il coronavirus sacrificandosi c’è anche don Peppe Branchesi, di Treia, nelle Marche, che dopo aver detto Messa nella sua parrocchia di Santa Maria in Selva andava in giro per l’Italia a raccogliere fondi per i bambini del Togo, organizzando con i suoi amici della pro-loco incontri conviviali a base di polenta da cui ricavava anche denaro, abiti e quant’altro servisse, per le missioni in cui aveva vissuto nei primi anni del suo ministero. Il nostro Paese è quello del Vecchio continente ad avere pagato il prezzo più alto in termini di vittime da Sars-Cov2.

Peggio di noi sta solo la Gran Bretagna che fino a ieri ne registrava 124mila. E il nostro è pur sempre un bilancio provvisorio e parziale, che non può tenere conto, per esempio, di chi è deceduto ma non è stato sottoposto al test di positività, e soprattutto è un bilancio che non tiene conto di chi ha cessato di vivere per altre patologie perché a causa della pressione sui servizi sanitari dovuta alla pandemia non ha potuto curarsi o sottoporsi a visite ed esami che li avrebbero potuti salvare. E nell’ultima settimana, contraddistinta dalla prepotente sferzata della variante inglese si è viaggiato a una media di 300 vittime al giorno.

L’Ispi stima che, proprio a causa dei ritardi nei vaccini, tra la fine di marzo e l’inizio di aprile si tornerà a quota 500 morti al giorno con un ulteriore aumento dei ricoveri nelle terapie intensive. Dall’ultimo report del-l’Istituto superiore di sanità viene fuori un ritratto delle 100mila vittime del virus: età media 81 anni (86 se donna) con tre o più patologie pregresse.

Dei 100mila, inoltre, solo 1.055 avevano meno di 50 anni, e 36 di questi non avevano manifestato altre malattie. La Lombardia con il 30%, seguita da Emilia Romagna e Veneto è la regione dove si è registrato il più alto tasso di mortalità da Sars-Cov2. Soprattutto nelle Rsa. Si tratta di «una carneficina silenziosa », commenta Roberto Messina, presidente di Senior Italia FederAnziani che ha promosso per oggi alle 12 davanti a Palazzo Chigi un presidio per ricordare tutte le 110mila vittime. «Assistiamo senza batter ciglio al bollettino dei morti giornalieri nel tardo pomeriggio di ogni giorno. Per non cedere a questa logica di indifferenza, al superamento di questa tragica soglia che non è soltanto un numero, abbiamo scelto di fermarci in un momento di saluto e riflessione, che vuol essere al tempo stesso uno sprone a non arrendersi e a prendere decisioni rapide, nel bene del Paese». Un incoraggiamento, un monito, una speranza.

da avvenire.it