“Fiore” di Claudio Giovannesi racconta la parabola di un’esistenza
Il cinema italiano sta dando, recentemente, segnali della nascita di una nuova generazione di giovani cineasti interessanti e dalle proposte cinematografiche non banali. Si muovono su due polarità: registi che agiscono più all’interno di generi codificati (esempio emblematico “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti) e registi che perseguono un via più autoriale, minimalista e realista. Su questa polarità troviamo le opere di Claudio Giovannesi che, dopo il bell’esordio con “Alì ha gli occhi azzurri”, torna con una pellicola sensibile, intelligente, una storia “piccola” estremamente umana ed emozionante. Esattamente com’era anche Alì, che raccontava la quotidianità di un giovanissimo figlio di immigrati che si sente italiano ma che, invece, non viene accettato dai suoi coetanei. La struttura di quella pellicola è la stessa di “Fiore”: macchina da presa mobilissima che si “incolla” ai suoi giovani protagonisti, registrandone ogni movimento, ogni variazione fisica e soprattutto interiore. Un cinema della realtà, delle piccole cose, della minuziosa ricostruzione di un quotidiano che, accumulando piccoli gesti, si fa parabola di un’esistenza.
Fiore racconta le giornate di Daphne, adolescente romana che dopo il furto di un cellulare finisce in un carcere minorile. Di lei sappiamo solo che non ha una madre (non viene mai nominata in tutta la pellicola) e ha un padre che è appena uscito dal carcere, ha ancora l’obbligo di firma e cerca, faticosamente, di rifarsi una vita con una nuova compagna e il figlio di lei. Daphne è, quindi, sola, e capiamo che è scappata dalla casa famiglia a cui era stata affidata, dormendo a casa di amiche o addirittura per strada. È quindi sì un’adolescente ma non è più una bambina, ha dovuto imparare a crescere per forza e soprattutto della vita ha conosciuto solo le durezze, le difficoltà, le tragedie. È infatti una ragazza scontrosa, ribelle, che cerca di sopravvivere a suo modo e che ha messo una corazza contro il mondo esterno, soprattutto quello degli adulti che l’ha sempre delusa (vedi il padre che non se la sente di tenerla a casa con lui e la nuova famiglia).
La vita nel carcere è scandita da giornate sempre uguali e da tutta una serie di regole, molte delle quali la ragazza stenta a osservare. Inoltre la convivenza con le altre giovani detenute non è affatto facile: ognuna ha infatti una storia difficile alle spalle e ognuna ha le proprie ruvidezze e spigolosità che spesso vengono in contrasto. Qualcosa, però, improvvisamente cambia: Daphne fa la conoscenza di un giovane detenuto, che si trova nell’edificio accanto al suo (quello solo maschile). Si chiama Josh, anche lui è dentro per furto, anche lui sembra bisognoso solo di affetto, libertà, speranza. Tra i due inizia un lento ma inesorabile avvicinamento, fatto di chiacchiere rubate alla finestra, lettere recapitate di nascosto (le due parti, maschile e femminile, infatti non dovrebbero comunicare) e sguardi lanciati durante la celebrazione della Messa. Improvvisamente, contro ogni previsione (soprattutto per il contesto in cui ciò avviene) sboccia l’amore. E la disperazione dei due giovani si tramuta in felicità, la mancanza di prospettiva in futuro.
Anche se il finale è, giustamente, aperto, Giovannesi racconta con sensibilità e con verità, il ritratto di un’adolescente difficile, con tutte le sue contraddizioni, i suoi slanci positivi ma anche quelli negativi, e ci lascia, alla fine, con un filo di speranza per il futuro di questa ragazza che ha dovuto imparare a lottare prestissimo per ottenere il suo posto nel mondo e che, forse, grazie al potere di trasformazione dell’amore finalmente ha uno spiraglio di luce per il suo futuro.