Si respira una certa soddisfazione per la buona riuscita delle ultime iniziative in città. Il Summer food dello scorso fine settimana, ad esempio, ha portato un notevole movimento in piazza: abbastanza da rilanciare con forza sui giornali l’idea che il centro storico sia la «location ideale e apprezzata» per ospitare questo genere di cose.
La formula
Comunicati stampa a parte, viene da chiedersi se gli affollati eventi delle ultime settimane siano davvero il segno di una ritrovata vitalità, o se invece non coprano una qualche disperazione. Che le feste gastronomiche attraggano gente è fuor di dubbio. Di sicuro ci guadagnano i lavoratori degli stand e aumentano i contatti per i negozi. E poi queste proposte invogliano a uscire, a stare insieme: non è certo male per un centro cittadino in agonia, impoverito di abitanti, esercizi e servizi.
Centro storico in crisi
La parte antica di Rieti è fiaccata dal terremoto, da un’eccessiva espansione fuori le mura, dai troppi centri commerciali, dalle vendite on-line. Non si tratta di un caso isolato: in tante città si assiste al calo dei residenti nei quartieri storici e al saldo negativo tra le chiusure dei negozi e l’apertura di nuove attività. Ma la ricetta che stiamo sperimentando per contrastare questa crisi generale sarà quella giusta? Il successo delle iniziative è meritato e rincuora. L’immediato consenso, però, non dice nulla attorno all’efficacia del rimedio, che potremmo presto scoprire limitato, superficiale e di corto respiro.
Scelte di campo
Il punto è che i centri storici sono in cerca di una nuova identità e desta preoccupazione il costante ricorso al basso profilo che punta letteralmente alla pancia della cittadini. È vero che il cibo è cultura, ma è l’odore di fritto, arrosto, formaggio e insaccati che sale alle finestre del Municipio ciò che ci rappresenta meglio? Sono le bancarelle e i gazebo l’immagine della città che vogliamo? Sono questi gli elementi che raccontano quel che siamo, che rendono unica la città, che ne valorizzano la storia e le tradizioni?
Turismo e identità
Proviamo ad ampliare l’orizzonte. Credere in Rieti “città turistica”, obbliga a un confronto con le località che hanno maggiore successo in questo settore. Possiamo dunque chiederci se il modo che abbiamo di occupare piazza Vittorio Emanuele II è immaginabile anche per piazza Della Signoria, piazza San Marco o piazza Duomo. È vero che Rieti non è Firenze, Venezia, o Milano, ma non tanto per una questione di dimensioni, quanto di amor proprio, di orgoglio cittadino e anche di prospettiva.
Una voce diversa
A giorni alterni si corona di Rieti «capitale mondiale» di qualcosa: dalla danza al belcanto, dallo sport al peperoncino. Sono affermazioni spericolate e un po’ provinciali, ma la città ha davvero le sue carte da giocare. Però bisogna crederci, riconoscere i veri punti di forza, arrangiare strategie e fondate.
Magari si potrebbe costruire qualcosa di nuovo dando retta alla lezione dei due economisti intervenuti all’Incontro pastorale dello scorso fine settimana. Da Stefano Zamagni e Luigino Bruni è arrivato l’invito a sperimentare un’economia civile, a indirizzare alla socialità e alla reciprocità il lavoro e il mercato, a non fare di consumo e profitto gli unici indizi di qualità e successo.
Un approccio che sottrae alla secca alternativa tra la condanna a una crescente marginalità e il rifugiarsi in iniziative di scarsa prospettiva. Una scelta di campo che potrebbe riuscire ad assecondare le esigenze di giovani qualificati e creativi, e di una nuova economia urbana, fatta di terziario avanzato, conoscenze innovative e aperture al terzo settore.
Il rischio dell’abitudine
Nella parola “sviluppo”, ha spiegato Zamagni a Contigliano, la “s” iniziale nega il “viluppo”, inteso come chiusura in se stessi «senza osservare né aprirsi al mondo circostante». Come a dire che margini di crescita e miglioramento si trovano quasi sempre andando oltre le abitudini, evitando di accontentasi del “si è sempre fatto così” e rifiutando la ripetizione ottusa di quello che sembra funzionare. Ad allargare lo sguardo, infatti, quella che sembra la soluzione potrebbe rivelarsi parte del problema.