Bruxelles, prove di politica vera (veti compresi)

Nulla di deciso. Il Consiglio europeo del 16 luglio ha segnato il passo rispetto alle decisioni sulle future alte cariche dell’Unione: non basta alzare la voce, occorre convincere gli interlocutori delle proprie buone ragioni. “Serve un accordo su un pacchetto globale” per gli incarichi di presidente del Consiglio europeo, Alto rappresentante per la politica estera e presidente dell’Eurogruppo.

Adesso si fa sul serio.

La politica – con i suoi principi e obiettivi, le sue regole, i negoziati palesi o sottotraccia, i tempi mediamente lunghi – sbarca a Bruxelles e rende più complesso, forse più trasparente, il quadro istituzionale. Ma è al contempo espressione di un gioco democratico in cui bilanciare gli interessi nazionali con quelli comunitari, le spinte ideologiche, le pressioni dei partiti, le ambizioni personali dei leader. Per questa ragione il Consiglio europeo del 16 luglio ha segnato il passo rispetto alle decisioni sulle future alte cariche dell’Unione: non basta alzare la voce, occorre convincere gli interlocutori delle proprie buone ragioni.

O tutto o niente.

“Serve un accordo su un pacchetto globale” sui più elevati incarichi europei: ovvero il presidente del Consiglio europeo, l’Alto rappresentante per la politica estera, il presidente dell’Eurogruppo. “Se non c’è accordo su tutto non c’è accordo su niente”. “Non ci siamo focalizzati su un nome come se da questo dovesse dipendere tutto l’accordo”. Il belga Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, ha efficacemente sintetizzato quanto accaduto nel corso del vertice dei 28 capi di Stato e di governo riunitisi al palazzo Justus Lipsius. Ogni decisione sui “top jobs” è rimandata a un nuovo summit fissato il 30 agosto. La discussione è ruotata dapprima attorno alla scelta del prossimo Alto rappresentante (che assomma in sé la responsabilità di vice presidente della Commissione), in sostituzione della laburista britannica Catherine Ashton, il cui mandato scadrà il 30 novembre. Il premier italiano Matteo Renzi, appoggiato da un gruppo di Paesi, ha posto sul tavolo il nome del ministro degli Esteri Federica Mogherini: ma, evidentemente, il nome non soddisfa tutti, specialmente alcuni Paesi dell’est e del nord, ritenendo da una parte che il capo della diplomazia italiana non avrebbe sufficiente esperienza internazionale e, dall’altro, che sia troppo vicina alla Russia e alle posizioni del presidente Putin. Vero o falso, la candidatura non è andata in porto, e sarà inserita nelle trattative sull’intero pacchetto di nomine che si dovrebbe dipanare nelle prossime sei settimane.

Stati, partiti, leader…

Tali nomine, come specifica il documento con le “Conclusioni” del Consiglio, saranno “considerate collettivamente”. In Europa, specialmente a partire dal voto del 22-25 maggio e dal nuovo ruolo politico assunto dal Parlamento di Strasburgo nella scelta del presidente della Commissione (il lussemburghese Jean-Claude Juncker, votato ad ampia maggioranza dall’emiciclo il 15 luglio), si è aperto un ciclo differente, in cui gli elementi e le posizioni da considerare per ogni decisione si moltiplicano. La Germania di Angela Merkel pone sul tavolo il peso del suo Paese, che tutti, bene o male, le riconoscono; il Regno Unito di David Cameron continua a puntare i piedi su ogni possibile passo in avanti dell’integrazione, e qualcuno comincia a domandarsi se la presenza di Londra nel club europeo sia necessaria; la Francia di François Hollande ritiene, come sempre, di essere il centro del Continente, ma non sono pochi oggi a dubitarne. E così via. Quanto contano la Polonia e i Paesi dell’Europa centro-orientale nella democrazia di Bruxelles? E i Paesi nordici? Quanto valgono i consensi raccolti dalle grandi famiglie politiche alle elezioni di maggio? L’accordo tra Popolari e Socialdemocratici, spalleggiati dai Liberaldemocratici, che ha condotto alla nomina di Juncker, reggerà nel lungo periodo, quando, oltre alla spartizione delle poltrone, giungerà il momento di definire e perseguire un progetto per l’Ue di domani?

Ucraina e Medio Oriente.

Su questi diversi fronti si misurerà dunque l’“agorà” comunitario. Che nel frattempo deve però affrontare varie sfide urgenti, interne (crisi economica e occupazionale, migrazioni, diritti fondamentali, politica energetica e ambientale, sostegno alle regioni meno sviluppate…) ed esterne (allargamento, partnership commerciale con gli Stati Uniti, conflitti armati e instabilità in Medio Oriente e Africa). Nel corso del Consiglio europeo, infatti, i 28 leader hanno toccato due emergenze internazionali: l’Ucraina e il conflitto israelo-palestinese. Nel primo caso l’Ue ha scelto sanzioni “morbide” nei confronti della Russia, rispetto a quelle stabilite nelle stesse ore dagli Stati Uniti, mentre invoca ancora una volta “una soluzione pacifica della crisi, e in particolare la pressante necessità che sia concordato da tutte le parti un cessate il fuoco effettivo” per poter attuare il piano di pace del presidente Poroshenko. Alla Russia, l’Ue chiede di terminare ogni forma di appoggio ai ribelli armati nell’est ucraino. Vengono nel frattempo sospesi i nuovi finanziamenti alla Federazione russa da parte della Banca europea degli investimenti. Sulla situazione in Terra Santa, il Consiglio europeo “condanna il lancio di razzi da Gaza su Israele e gli attacchi indiscriminati contro i civili”. Israele “ha il diritto di proteggere la sua popolazione da questo tipo di attacchi” ma deve “agire in maniera proporzionata”. L’Ue insiste quindi sul cessate il fuoco immediato e sulla “ripresa del processo diplomatico” per “perseguire per il conflitto israelo-palestinese una soluzione fondata sulla coesistenza di due Stati”.