“Black Mass”, un mondo senza redenzione

Nel 1960 per la prima volta nel cinema americano un film portava in scena l’orrore, la violenza, la follia. Non che il cinema classico non avesse mai affrontato storie cupe ed oscure (basti pensare al genere gangster tanto in voga negli anni Venti), ma le modalità del racconto sul “lato oscuro” dell’uomo erano sempre mitigate da una forza morale, da un’etica che, alla fine, vinceva su tutto. Nel 1960 un regista sperimentatore contravviene a tutto questo e lancia una pellicola in cui, anticipando i tempi successivi, il male viene rappresentato per quello che è, mostrato in tutta la sua inquietudine. Si tratta di “Psycho” di Alfred Hitchcock. Quella pellicola, girata da un autore acclamato del sistema classico che fino a quel momento aveva girato opere perfettamente integrate nel sistema linguistico e valoriale della cinematografia statunitense, segna uno scarto, una frattura nei confronti di un modello narrativo ed etico pre-esistente e apre le strade ad una narrazione nuova: quella post-classica o post-moderna che dir si voglia. Una narrazione manierista, esasperata, inquietante, che tende a non rassicurare lo spettatore, anzi a gettarlo nel panico, che mostra ambiguità e nessuna certezza, che racconta la violenza, anche con una dose di compiacimento, che esalta la follia. Dallo psicopatico Norman Bates raccontato da “Psycho” ai tanti psicopatici (come Hannibal Lecter de “Il silenzio degli innocenti”, solo per fare un nome) del cinema più recente, la via è stata aperta: la cinematografia è cambiata e le storie che oggi vengono proposte al pubblico hanno spesso per protagonisti personaggi disturbati, malati o semplicemente malvagi, che non conoscono redenzione e che esprimono l’atmosfera nichilista e relativista che aleggia sulle nostre società. Non sfugge da questo tipo di narrazione “Black Mass”, film interpretato da Johnny Depp nei panni di un cattivissimo criminale, realmente esistito.
Nato e cresciuto a Boston, Jimmy Bulger è un criminale di zona, h a una gang, è rispettato e amato dai locali, specialmente da John Connolly, ora diventato agente dell’Fbi che con i Bulger (Jimmy e suo fratello Bill, il senatore) è cresciuto. Proprio John Connolly propone a Jimmy di diventare suo informatore, così da poter fare carriera e in cambio gli consentirà di agire indisturbato. L’idea che a metà degli anni ‘70 e per tutti gli anni ‘80 la polizia federale si sia associata e abbia lasciato prosperare un criminale è un affare di famiglia, una storia interna ai quartieri di Boston, a due esseri umani che si devono favori e si aiutano a vicenda. Tenendosi ben lontano dalla grandezza dinastica del “Padrino” o dall’ordinaria malvagità dei “Soprano”, e anche a distanza di sicurezza dal terrore e dalla follia di quartiere di “Quei bravi ragazzi”, il regista Scott Cooper si muove evitando i paletti del cinema già visto e già passato. Il suo Jimmy Bulger, capomafia, padre, marito e fratello è una personalità sfuggente, i cui tratti somatici sono più chiari e memorabili del suo carattere, un mafioso come tanti che, nell’economia della storia rischia addirittura di essere oscurato dal viscido pesce piccolo John Connolly. La pellicola è attraversata dalla rappresentazione cruda e realistica della violenza, fisica e mentale, e descrive un mondo che ha perso i suoi punti di riferimento valoriali e in cui vige la legge del più forte. Un mondo dove non c’è redenzione e nessuna speranza. Il cinema post-classico, infatti, ha perso ogni riferimento etico forte del racconto e si è aperto al relativismo nichilista contemporaneo. Proprio come Hitchock con “Psycho” aveva preannunciato.